Con Gae Aulenti se ne va una vecchia amica di questa rivista, amica vecchia per l’anagrafe, che fa apparire la sua scomparsa nell’ordine delle cose che dovrebbero essere accettabili, ma giovane, giovanissima nelle idee e negli slanci, nella curiosità e nella passione per la vita pubblica fino all’ultimo, il che fa invece della sua morte qualche cosa di innaturale e spropositato.
C’è un gruppo di amici, milanesi e non, di persone vicine al suo spirito, abituate ad averla come parte indispensabile della conversazione, come motore dell’impegno a guardare Milano, l’Italia, le cose del mondo e noi stessi con severità, con ironia pungente, con l’autonomia di giudizio di chi non ha bisogno di misurarsi con la retorica corrente e con le mode del momento.
Un circuito di conversazioni che «senza la Gae» è come azzoppato. Capiterà in varie circostanze di guardarsi intorno per cercare la sua battuta conclusiva, quella che decide il tono con il quale si sarebbe usciti dalla discussione su un certo argomento, che si tratti di Expò, di destra o sinistra, di urbanistica e malefatte delle amministrazioni nel «consumare territorio».
L’ho conosciuta la prima volta negli anni Settanta nella redazione dell’Unità di Milano, in viale Fulvio Testi, dove era capitata per un intervista con un cronista, Alfredo Pozzi, appassionato come lei di mobili, design (e di Brianza) e per scegliere le foto che dovevano accompagnare il servizio. Aveva già il carisma di chi aveva fatto, a poco più di quarant’anni, un bel tratto di strada nell’affermarsi professionalmente nel mondo. Le idee, il gusto e la cultura che lei, come Ettore Sottsas, trasmettevano attraverso l’architettura e gli oggetti collegavano già Milano, il suo Salone del Mobile, e la Triennale con il resto del mondo.
Carisma e insieme semplicità, piedi per terra, nella sua città, vista dalla sua casa studio sopra il Tumbun de San Marc, erano gli ingredienti elementari di un successo fatto di lavoro, fatica e apertura mentale. Una apertura che doveva molto a Milano, città delle differenze, città ospitale, città di moltitudini di immigrati. Lei, arrivata dal Friuli e da una famiglia pugliese, aveva acquisito l’anima milanese come più non si può. Del resto era uscita dal non disprezzabile Politecnico locale, dove aveva studiato composizione con Ernesto Nathan Rogers, e dall’esperienza della rivista Casabella. Le piaceva spiegare la sua vita, tutta “Milano-andata-e-ritorno”, come il risultato di «circostanze fortunate», un vezzo che dava leggerezza al suo racconto.
Negli anni Ottanta arrivano i grandi lavori di Parigi e Barcellona, e da lì – spiegava lei stessa, come scusandosi – si diventa la dimostrazione vivente del «paradosso di San Matteo» (ovvero «a chi ha sarà dato…»), quel fenomeno per cui chi ha successo ne avrà ancora di più. E non mancava di ricordare e onorare il suo debito con Mitterrand.
Ma rispetto a tante storie milanesi di successo, di talenti che si affermano nel mondo e che finiscono per distaccarsi dal suolo, quella di Gae Aulenti è una vita che a Milano ha sempre fatto ritorno – da Buenos, da Tokyo, da Venezia, da Palermo – per non perdere la concentrazione su una città e una terra (Brianza compresa) a cui doveva, e a cui aveva dato, molto, per spingere la classe dirigente, e la gente tutta, a non distrarsi, a non perdersi nella miseria delle presenti cronache, per rimettere in onore l’impegno politico nel governo del territorio, perché molto c’è ancora da fare.
Molte sue realizzazioni, a cominciare dal Museo de la Gare d’Orsay, non finiscono di far discutere. Così anche l’arredo di Piazzale Cadorna a Milano con le sue controverse geometrie rossoverdi. A queste credo che i milanesi si siano ormai molto affezionati, come me. Il modo migliore di salutare la scomparsa di Gae Aulenti sarà quello di continuare le discussioni con pubblicazioni, mostre e incontri, che ci regalino una visione più ricca di questo bel pezzo della storia dei talenti italiani che Gae ha interpretato con tanta naturalezza.