ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

UNIRE I RIFORMISTI

da Libertàeguale
7 marzo 2021
Giovanni Cominelli
LE CINQUE MOSSE PER UNIRE I RIFORMISTI
“Unire i riformisti”, come pretende l’ambizioso Appello omonimo, che ho firmato, è impresa complicata.
Intanto: chi sono “i riformisti”? “Riformista” è un lemma che prende un significato più proprio dalla storia del Movimento operaio; quello opposto è “massimalista”, “rivoluzionario” e, in tempi recenti, “radicale”. Riformista qui equivale a “sinistra di governo”. Come a dire: il PD resta il perno dell’operazione “unire i riformisti”. D’altronde, dentro il PD opera una corrente “Base riformista”. Anche se, finora, si è limitata a fare il pesce in barile, distinguendosi solo per l’esagitata campagna ad personam condotta da qualche suo esponente contro Renzi.
Si dà, però, del significato “riformista” anche un raggio più lungo, che spinge la circonferenza riformista ben oltre il campo della sinistra di governo per allargarsi a forze liberali, di matrice socialista, cattolica, liberale, radicale, che si oppongono decisamente a forze populiste, sovraniste, nazionaliste. In questo caso, conseguono due giudizi diversi:
che il PD non è più l’unico soggetto riformista presente sulla scena;
che il PD non è più riformista e che, quindi, occorre oltrepassarlo.
A chi firma appelli per unire i riformisti è consentito, per ora, stare al di qua delle scelte politiche che tali diversi giudizi comportano, per dedicarsi a mettere a punto la piattaforma culturale e programmatica, sulla quale dovrebbero ritrovarsi i riformisti. È forse questo il contributo migliore che si può dare dall’interno o dall’esterno al travaglio del gruppo dirigente del PD, al momento sotto choc per le dimissioni del segretario Zingaretti.
Il primo passo dell’impresa è quello della scelta della tavola dei valori, cioè del prisma attraverso il quale si traguarda il Paese e si arriva alla constatazione che nei comparti-chiave della vita socio-economica, culturale, politico-istituzionale esso non è all’ altezza di quei valori. Alla base dell’impegno riformatore sta, dunque, un’etica pubblica, che nasce dalla tavola classica del 1789: “Liberté, égalité, fraternité”. Che si può semplificare più modernamente in “Libertà e giustizia”. O, se si preferisce in questa sede, in “Libertà eguale”. Si tratta della sintesi di socialismo riformista, di liberalismo sociale, di personalismo cristiano.
È facile anche il secondo passo. Quello di compilare e ordinare il catalogo delle innovazioni necessarie per costruire un Paese libero e giusto. Da tempo, tanto dalla politica quanto dai mondi vitali della società civile e, persino, dall’amministrazione dello Stato affluiscono domande, proposte e suggerimenti di innovazione del sistema-Paese.
Il terzo passo, muovendo dalla constatazione dell’assenza di riforme, tenta di rispondere alle seguenti domande: “Perché il Paese sta declinando da qualche decennio? perché è a sviluppo bloccato?”. Ed è qui che i riformisti, invece di unirsi, si sparpagliano in direzioni diverse: uniti sul “riformismo”, ma divisi sulle “riforme” da realizzare.
Al fine di innescare una dinamica di innovazione, finora i riformisti politico-partitici hanno puntato incessantemente su rifondazioni, cambi di leadership, scissioni e ricomposizioni, alleanze, immissione di nuove forze grezze dalla mitica “società civile”, podestà stranieri, populismi “buoni” (?). Risultati zero! La ragione di tale fallimento e, pertanto, dell’impotenza e delle divisioni, con le degenerazioni narcisistiche di cui alcuni danno patetico spettacolo quotidiano, sta nel fatto che i riformisti hanno sempre messo in discussione le policy, la politics, ma quasi mai la struttura istituzionale della politica, cioè il sistema politico-istituzionale. Si sono sempre rifiutati, salvo l’eccezione del referendum del 2016, di mettere in questione il terreno su cui insistono e l’osservatorio dal quale traguardano il mondo: la struttura della politica.
Facciamo un esperimento mentale: supponiamo che l’intera società italiana sia protesa verso l’innovazione, supponiamo che siano chiare e condivise dalla società le priorità e le tappe di ogni innovazione necessaria, supponiamo… ma quando si passa alla realizzazione, il governo che le deve realizzare quanto dura? Un soffio. Nessun progetto di riforma è in grado di attraversare indenne le turbolenze quotidiane della politica.
L’obiezione che viene mossa a questa finzione mentale è che, in realtà, non esiste nessun accordo nella società sulle riforme da fare. Perciò, volendo evitare forzature giacobino-autoritarie, occorre contrattare, fare compromessi, galleggiare lungo gli anni, nell’attesa che una qualche emergenza ultimativa costringa tutta la società a camminare nella stessa direzione. Finché dura l’emergenza, si intende! Per poi riprendere a galleggiare. Insomma, l’instabilità della politica dipende dalla stabile instabilità della società civile. E questa è una variabile indipendente.
È presente in questa obiezione l’intera cultura politica consociativa, inaugurata nel CLN, che ha dato i propri frutti nell’Assemblea costituente e nella Costituzione del ’48 e praticata lungo tutto il tempo della Repubblica, salvo un sussulto tra il 1989 e il 1994. Con una differenza: che la cultura politica consociativa degli anni 1943-48 ha progettato attivamente le istituzioni; quella post-’48 è stata ed è una cultura passiva, che ha rinunciato a ri-progettare le istituzioni, anche quando le condizioni internazionali e i mutamenti socio-culturali ne rendono urgenti di nuove.
La storia della politica della Repubblica – che Piero Craveri ha sintetizzato nel titolo di un libro “L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della repubblica italiana” – è la storia di un’architettura politico-istituzionale sempre più fragile, sempre meno capace di governo. Fino all’89 il governo debole era stato protetto dal guscio duro delle democrazie occidentali, il sistema politico-partitico era appoggiato al Muro. Ci si consolava, perché se il lato istituzionale del governo era debole, il lato politico-partitico del governo era forte. Caduto il Muro, è crollato il sistema partitico che vi si appoggiava. Dopo, il sistema politico-partitico ha coltivato l’illusione di stabilizzare se stesso e l’istituzione-governo, semplicemente modificando il sistema elettorale in senso maggioritario. Ma i governi hanno continuato a cambiare, eccetto che dal 2001 al 2006. Le ultime due legislature hanno totalizzato tre governi quella dal 2013, tre governi quella dal 2018.
A questo punto l’ordine di priorità delle riforme è già dato. Compito dei riformisti è cambiare l’assetto politico-istituzionale della Repubblica. Le riforme stanno già tutte da decenni in sala d’attesa, ma la porta di ingresso è bloccata da un assetto istituzionale obsoleto. I modelli di riforma istituzionale in giro per l’Europa non mancano, da quello francese, a quello tedesco, a quello inglese. Tutti hanno in comune un’istituzione-governo forte. Forte, in primo luogo, perché ha tutto il tempo di una legislatura per progettare, implementare, correggere in corso d’opera. Forte, perché garantito da un sistema elettorale a torsione maggioritaria, più o meno robusta a seconda dei sistemi.
La vocazione maggioritaria dei partiti in quei sistemi non è un programma ideologico o un’autoinvestitura, è una necessità istituzionale, all’interno di un sistema istituzionale a governo forte. D’altronde, parlare di vocazione maggioritaria e non battersi per una riforma istituzionale di governo forte è stata la contraddizione del Lingotto del 2007 e continua ad essere oggi quella del PD. Non è sanabile. Se è vero, come fa osservare Stefano Ceccanti, che la forma-partito dipende dai condizionamenti degli assetti istituzionali-elettorali, resta che i sistemi elettorali si sono dimostrati fragili e reversibili, proprio perché non agganciati al modello costituzionale. Finché la priorità politica e intellettuale non sarà la riforma istituzionale, il PD continuerà a galleggiare stancamente “tra un già e un non ancora”, che può anche tramutarsi in un “non più”. Da questo punto di vista, il PD non è affatto un partito giovane. Sta rapidamente incanutendo. E qualche capello bianco glielo farà venire proprio Conte, al quale era stata affidata la missione di ringiovanirlo.
Dagli anni ’90 la mia preferenza va al sistema semi-presidenziale francese. Era, d’altronde, emerso come orientamento prevalente dalla Commissione bicamerale, presieduta da D’Alema nel 1997-98. Si tratta di un assetto costituzionale/istituzionale, che genera come corollario un nuovo sistema elettorale. La stabilità deriva dal nuovo assetto costituzionale, non dal sistema elettorale. Quali i vantaggi e gli effetti? Quali che siano le convulsioni della società e della politica, è garantita la stabilità totale per cinque anni. Dovuta all’elezione diretta, a doppio turno, del Capo dello Stato, e dei deputati che lo sostengono, sempre a doppio turno. I cittadini-elettori hanno in mano loro direttamente le chiavi della democrazia. Non i partiti. I partiti propongono, gli elettori dispongono.
I partiti diventano inutili? Al contrario. Ad essi continuano a competere due funzioni fondamentali:
a) filtro, depurazione e rappresentanza degli interessi emergenti della società civile;
b) educazione pubblica e formazione di una classe dirigente.
Detto con uno slogan: meno governo, che è il compito dell’istituzione-governo , e più Stato, cioè statualità universale, Bene comune, etica pubblica. Se, come suggerisce Giorgio Tonini, occorre una nuova “Costituente del riformismo”, sarà un fallimento se si trasformerà in una Sanremo, dove si cantano le riforme possibili e necessarie, con relativi convegni, congressi, stati generali, seminari e forum e un grande dispendio di sigle. Occorre, dunque, non “una costituente del riformismo”, ma “un riformismo costituente”, che decida di prendere atto che la politica, nella sua forma più alta, in questa fase storica, ha come vocazione e responsabilità primarie l’ “Institution building”, il “fare Stato”, la costruzione di nuovi assetti della rappresentanza (abolizione del bicameralismo), del governo (governo presidenziale), delle Regioni, delle aree metropolitane, dei Comuni, nella prospettiva di un’Europa federale, basata su grandi aree di sviluppo regionale interconnesse al di là e al di qua delle Alpi.
Questo dibattito non è la logica e burocratica ripresa dell’“heri dicebamus” del 2016. Come dopo ogni guerra o pandemia, dal 2021 usciranno due tipi di Paesi: quelli che si slanceranno in avanti nello sviluppo e quelli che affonderanno nella decadenza. L’Italia, ultima in Europa per le prospettive di ripresa, sta sul crinale di questi due scenari. La modernizzazione del nostro sistema politico-istituzionale è perciò l’impresa più necessaria di questo tempo tragico. Oggi ci sono le condizioni politiche migliori per lanciare una proposta di riforma costituzionale, quale che sia la forma giuridica in cui il soggetto costituente si definisca. Certo è che il tempo del governo Draghi, tempo sospeso dei partiti, è il “καιρός per eccellenza. I partiti hanno tempo due anni.
Questa proposta ha un difetto: non è di sinistra, non è di destra. Ha alle spalle l’idea che una posizione politico-culturale che non si proponga la riforma istituzionale come precondizione di ogni altra non è riformista, è conservatrice. Il contrario di ciò che la sinistra è sempre stata: rappresentanza dell’innovazione. L’Appello è l’invito anche alla sinistra a riprendere una professione che ha dimenticato da tempo: fare innovazione per rispondere alla collocazione europea e mondiale del Paese.

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