Editoriale da santalessandro.org
Settimanale on line della Diocesi di Bergamo
Sabato, 4 giugno 2022
Giovanni Cominelli
PER UN UNDICESIMO COMANDAMENTO: NON COMMETTERE GENOCIDIO
E’ o non è genocidio quello perpetrato da Putin contro il popolo ucraino?
Se si deve giudicare alla luce dell’art. 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, adottata dall’ONU il 9 dicembre del 1948, parrebbe di sì: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”. L’intenzione di Putin è trasparente ed è il corollario di un teorema: il popolo ucraino non esiste. Se un popolo si proclama “ucraino”, deve essere, secondo logica, annientato.
Sarà la Corte penale internazionale, istituita a Roma nel corso della riunione della cinquantaduesima Assemblea dell’Onu, tra il 15 giugno al 17 luglio 1998, e entrata in funzione nel 2002, a decidere se si tratta di genocidio. Intanto si raccolgono prove.
I genocidi finora riconosciuti, in base al diritto internazionale, sono: quello armeno, tra il 1915 e il 1916; la Shoah, durante la Seconda guerra mondiale; quello cambogiano, tra il 1975 e il 1979; quello della Bosnia-Erzegovina, tra il 1992 e il 1995; quello del Ruanda, tra il 7 aprile e la metà di luglio del 1994.
A noi qui interessa, tuttavia, il lato etico e storico-politico del discorso sul genocidio, pur tenendo fermo che la definizione giuridica internazionale è un dirimente punto di partenza, ad impedire la confusione con crimini di guerra e con altri atti barbari e sanguinari.
Nella coscienza collettiva c’è un solo genocidio, quello degli Ebrei. Degli altri già citati si occupa un’opinione pubblica più “specializzata” e informata. Dall’opinione pubblica “il genocidio” come possibilità storica degli esseri umani è considerato improbabile.
Ed a partire da questa constatazione che muove l’ultimo libro controcorrente di Gabriele Nissim, dal titolo: “Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi”. Secondo gli orientamenti di alcuni ambienti ebraici, contro il quale l’Autore polemizza ed è stato “polemizzato”, la Shoah è il Male assoluto unico, definitivo e irripetibile. Paradossalmente, secondo alcuni “teologi” integralisti ebrei, è persino il segno di una speciale attenzione che il Dio di Abramo e di Giacobbe riserva al proprio popolo: la Shoah come punizione per l’allontanamento del popolo dai suoi fondamenti. Punizione dura, ma anche segno di predilezione: c’è un solo “popolo eletto”.
Contro questo integralismo, in forza del quale la destra israeliana tra conseguenze immediate circa la gestione dei Territori occupati e, più in generale, della questione palestinese, l’Autore muove controcorrente.
No, la Shoah non è il Male assoluto unico, definitivo e irripetibile! Continua ad accadere nella storia degli uomini, in forme antiche e nuove, sempre atroci, come è evidente nella guerra ucraina che scorre sui nostri teleschermi. Il genocidio è una pratica della storia degli uomini.
Il genocidio non è un evento metafisico. Non è neppure “naturale”: non viene dalla Natura come il Covid – benchè non manchino corresponsabilità dirette e indirette degli uomini – viene dalla Storia degli uomini, direttamente responsabili e colpevoli. I genocidi del ‘900, sopra ricordati, non sono eruzioni “spontanee” della storia, sono “costruzioni” socio-politiche, guidate da un progetto, che coinvolge nella sua realizzazione molte persone in qualità di progettisti, architetti, opinionisti, intellettuali, manovali, logisti. Il genocidio è un’impresa collettiva, condivisa dalle classi dirigenti e da un gran parte, almeno, di popolo. La decisione “genocidaria” ha alle spalle teorie, movimenti, consenso. Perché scatti un progetto di annientamento dell’altro “in quanto semplicemente altro” occorre un lungo processo di accumulazione. La “Endlösung der Judefrage” viene da lontano, dai movimenti antisemiti europei e tedeschi in particolare. Viene da decenni di discorsi di odio.
Se è così, il genocidio si può prevenire. Raphael Lemkin, il giurista che ha coniato il termine “genocidio” e che ha lavorato negli organismi internazionali per addivenire ad un riconoscimento della fattispecie criminale, ha proposto quale primo passo della prevenzione la denuncia e la messa al bando delle parole di odio e di incitamento alla violenza e la lotta contro l’esclusione di gruppi etnici, culturali, religiosi e politici.
L’odio scorre, all’inizio, in piccoli rivoli sotterranei. A determinate condizioni, esplode dal profondo delle società, rompe la crosta delle convenzioni sociali e la sovrastruttura delle leggi e dei valori, i rivoli confluiscono in un grande fiume.
Chiunque frequenti i mass media, vecchi e nuovi, può constatare come negli ultimi decenni rivoli crescenti di odio siano stati alimentati dai mezzi di informazione contro singole persone e contro gruppi.
A fini di genocidio? Certo che no! Solo, a fini di audience e di introiti commerciali – lo scontro, l’insulto, l’irrisione dell’altro fanno la fortuna dei talk show e moltiplicano i like e la pubblicità – di consenso, di lotta politica, di distruzione dell’avversario. Consapevoli del disastro civile ed etico che hanno prodotto e stanno producendo? Certo che no. Allegramente incoscienti e irresponsabili, certamente sì.
Quello dell’Autore non è un allarme retorico o un’esagerazione predicatoria: sì, Auschwitz può tornare. I corpi ammucchiati dei civili in un supermercato o occultati nelle fosse comuni di alcune città ucraine testimoniano di un Male che riappare.
Ad un Mosè che potesse di nuovo scendere dal Monte Sinai, il Dio biblico affiderebbe oggi un undicesimo comandamento: non commettere genocidio. A noi spetta, nell’attesa, di lottare contro ogni espressione di odio. Nelle nostre società libere, c’è libertà di odio, entro i limiti presidiati dalla legge. Occorre, tuttavia, fare un uso più sistematico della libertà di combatterlo.