Oggi è letteralmente nelle tasche di qualsiasi adolescente un potere di elaborazione, ricezione e trasmissione di informazioni superiore a quello dei super computer che negli anni settanta guidarono gli uomini sulla Luna e che controllavano gli arsenali nucleari.
Quali sono le implicazioni di una rivoluzione tecnologica così capace di cambiare le nostre vite a partire dai rapporti personali e sociali? Quali doveri e diritti nuovi crea una trasformazione che equivale tecnicamente a quella della stampa che rese possibile il rinascimento e la nascita della civiltà moderna, e come si trasformano le istituzioni visto che l’informazione è potere e l’informazione esplode? In che misura le tecnologie possono produrre la crescita che ci sfugge e stanno, già, producendo la disoccupazione che non riusciamo più a riassorbire?
Stefano Rodotà è l’uomo che più di tutti ha messo le istanze degli individui al centro dell’agenda politica e la stesura – voluta dal Presidente della Camera Boldrini – della carta dei diritti fondamentali delle persone come soggetti che consumano e producono contenuti distribuiti da Internet è indubbiamente un tentativo assai innovativo. Perché costituisce la presa d’atto che non basta la carta universale dei diritti umani o la Costituzione di settant’anni fa, a regolare quella che è un’autentica mutazione. Basti pensare alle violazioni possibili della riservatezza: esse sono sempre avvenute; oggi possono diventare sistematiche al punto che è concepibile costruire veri e propri settori produttivi la cui materia prima sono centinaia di milioni di informazioni personali. Macchine di trasformazione delle informazioni in conoscenza che possono migliorare drasticamente la qualità della vita delle persone, ma anche, se usate male, compromettere libertà fondamentali. O produrre solo rumore.
Esercizi come quelli proposti da Rodotà e dalla comunità di esperti che ha riunito attorno a questo tentativo, presentano, tuttavia, almeno quattro limiti che sono associati alla loro stessa natura di dichiarazione di principio. Ed essi sono utili proprio se riescono ad incoraggiare un dibattito – incoraggiato dagli stessi promotori – in grado di condizionare l’agenda della politica e del legislatore.
Il primo limiteè che le cartedei diritti non si possono neppure porre il problema – delegato concretamente alle leggi – delle sanzioni e, in generale, dell’efficacia di ciò che prevedono. Questo è un limite strutturale e, tuttavia, la consultazione sulbill of rightpotrebbe essere l’occasione giusta per mettere in discussione alcuni tabù messi in crisi dalle tecnologie. Rispetto al problema, ad esempio, di proteggere i cittadini dalla possibilità di essere spiati, poteva essere questa la sede per porsi il problema della sufficienza della tradizionale “autorizzazione dell’autorità giudiziaria” per consentire la limitazione di quello che è un diritto fondamentale dell’uomo. Un diritto nuovo ad essere, comunque, informati (anche in presenza dell’iniziativa di un magistrato) dopo un certo numero di anni,del fatto stesso di essere stati controllati, potrebbe essere un antidoto molto più potente alla violazione sistematica che può arrivare anche dallo Stato.
In secondo luogo, la carta promossa dal Presidente della Camera è immaginata per essere iniziativa di un parlamento nazionale che tutt’al più auspicao aspetta un’iniziativa europea: è evidente però che Internet, le sue opportunità e i reati che vi sono eventualmente connessi si consumano in luoghi virtuali che attraversano i confini nazionali e che mandano per aria il principio di territorialità, presupposto per qualsiasi azione di prevenzione o repressione.
Anche l’Europa può risultare piccola per governare processi così assolutamente globali. Google, ad esempio, utilizza già ed in maniera sistematica le informazioni personali contenute in poste elettroniche che immaginiamo essere confidenziali, per proporci messaggi commerciali che rispondono a quello che è il nostro profilo. Discutere una qualsiasi regolamentazione che renda gli utilizzatori più consapevoli richiede porsi, subito, il problema di coinvolgere gli interessi dei giganti che ospitano le piattaforme attraverso le quali viene scambiata una quota mai così grande nella storia delle comunicazioni tra individui e organizzazioni.
Dall’iniziativa di Rodotà, in terzo luogo, dovrebbe venire un maggiore investimento in termini di riflessione sulle politiche che sono fondamentali per rendere sostanziale un troppo astratto diritto di tutti ad accedere con le medesime opportunità alla rete. Uno degli aspetti più innovativi (e di buon senso) della carta è aver insistito sull’educazione come migliore garanzia per proteggere le persone dal diluvio di informazione che stenta a trasformarsi in decisioni informate. Tuttavia, molto utile sarebbe rendere esplicito un interesse pubblico all’utilizzazione delle tecnologie come strumento capace di allargare le occasioni di democrazia e, dunque, di crescita: occasione di confronto, ad esempio, per scegliere come comunità – caso per caso – qual è l’equilibrio giusto tra tutela alla riservatezza e esigenza di migliorare qualità ed efficienza di servizi pubblici essenziali (in settori come la sanità, la mobilità, la sicurezza).
Molto importante sarebbe anche ragionare su come supportare lo sviluppo di un’informazione più equilibrata sulla rete stimolando una discussione pragmatica sul fatto che possa esistere un ruolo delle istituzioni nelprocessodi trasformazione di giornali e libri in prodotti virtuali. Utilizzandomagari per produrre esiti di qualità che fossero condivisi,i contributi statali oggi sprecati per salvare testate senza futuro.
Ma soprattutto la carta dei diritti di Internet non è collegata in alcun modo con gli investimenti che pure ci saranno nei prossimi anni. E questo l’elemento cherischia di farla scorrere come acqua su una situazione che è – per il nostro Paese – di forte divario interno e di ritardo rispetto agli altri Paesi europei.
Rodotà si poneva giustamente l’obiettivo limitato ma rilevante, di discutere di diritti e doveri che alla rete sono connessi. E non di monopoli da mettere in discussione o di scelte di politiche industriale. Ma la previsione di una sostanziale parità nelle opportunità di accesso non si avvicina se non trattiamo le risorse della rete, con la stessa priorità che assegnammo in un’altra epoca alla questione della distribuzione dell’acqua o dell’elettricità e agli investimenti infrastrutturali che la parità di accesso richiede.
Ma, soprattutto, continuerà ad essere piccola la percentuale del potenziale della rete che usiamo, se non maturiamouna conoscenza distribuita, condivisa, di quanto le tecnologie possano dare in termini di trasformazione radicale della geografia stessa delle nostre città o di organizzazione di servizi come il sistema sanitario nazionale. Se così non fosse, l’economia continuerebbe ad essere un gioco a somma zero che dipende esclusivamente dai miracoli di qualche banchiere centrale e non riusciremmo a vedere come le tecnologie hanno già trasformato intorno a noi i termini dell’equazione impossibile che non riusciamo a risolvere.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 20 Ottobre