In questi giorni di mezza estate è quasi impossibile resistere alla tentazione di prendere finalmente la macchina e avventurarsi nel centro cittadino: l’aria condizionata all’interno della vettura, lo scarso traffico, la disponibilità di parcheggi e, di non minore importanza, la sospensione anticipata del tributo di 5 euro. Devo dire che questa vicenda mi sembra fantastica: il consiglio di stato ha accolto il ricorso di un parcheggio a pagamento del centro che lamenta una diminuzione dei guadagni. E nessuno pensa ai costruttori di bighe, alle stazioni di posta, ai fabbricanti di carrozze, che, ignorati, sono praticamente scomparsi dalla nostra vita quotidiana.
Il problema è che nel centro di Milano tendo a perdermi: inutile cercare di orientarsi in un dedalo di viuzze che ignorano il concetto di parallelismo e depistano con improvvisi sensi vietati e svolte obbligate. Però ecco il salvifico parcheggio, addirittura in una piazzetta ricca di posti liberi. Si avvicina un signore di mezza età, visibilmente in difficoltà sia nei movimenti sia nel parlare; siamo a metà mattina e già ha ingaggiato una sfida con la bottiglia di birra che tiene stretta per il collo. Non riesco a capire cosa stia cercando di comunicare, sempre che stia cercando di comunicare: mi guarda e ride, bofonchia ancora qualche borbottio e poi si allontana con aria di superiorità.
Non so neppure di preciso dove sono; so che da quella parte dovrebbe esserci via Meravigli e da quell’altra, forse, via Torino. E allora di nuovo mi colpisce a tradimento la storia – dev’essere colpa di questo blog -: in questa zona sorgeva il palazzo imperiale negli anni (fine IV secolo) in cui Milano era divenuta capitale dell’impero e in cui vi abitava Agostino, alla ricerca di onori e gloria per la sua carriera di maestro di retorica.
Non vedo più il signore con la birra ma si sovrappone un’immagine molto simile:
Quel giorno mi preparavo a recitare un elogio dell’imperatore, infarcito di menzogne, ma capace di conciliare al mentitore i favori di altre persone, ben consapevoli. Il cuore ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese scorsi un povero mendicante, che, credo, oramai saturo di vino, scherzava allegramente.
Forse è a causa della egemonia tedesca, ma oggi non bevono più vino, ma birra, almeno al mattino.
Sospirando feci rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie: tutti i nostri sforzi, quali quelli che proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell’ambizione il fardello della mia insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravano, se non al traguardo di una gioia sicura, ove quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati? (Confessioni 6.6.9.)
Mi sono perso dietro le riflessioni di Agostino e mi è venuto quasi da pensare che il copione della vita preveda una serie di ruoli, probabilmente in numero finito, che ognuno di volta in volta viene chiamato a interpretare. Il barbone nei pressi del palazzio reale e quello che ne trae spunto per elucubrazioni mentali su felicità, destino, storia; ma allora sono entrato in un bar – solo per un caffè – perché mi sono reso conto che sarebbe stato francamente troppo illudermi di essere entrato nel ruolo di Agostino.
Leggo il post di Massimo nei momenti sfumati che seguono il risveglio, prima che il caldo incolli ogni mio pensiero. Mi viene da pensare a un quadro appeso a una parete. Nel quadro c’è un uomo, che indica un oggetto con un gesto della mano. Seguo quella indicazione e m’imbatto in un altro uomo. Dunque è proprio lui quello cui si riferisce il gesto? Ne siamo davvero sicuri? Massimo ci ha portato dentro la cornice, lì dove i confini si fanno labili, l’immaginazione sfuma i contorni della realtà, anzi, la sostituisce con i contorni di un’altra realtà. Se invece di indicare un ubriaco che rimanda all’ubriaco di Agostino il gesto di Massimo avesse rimandato a un tram che passava o all’edicola, o al caffé nel quale entra quando si rompe l’incantesimo, non sarebbe stata la stessa cosa. Non ci avrebbe lasciato in quella indecisione, in quella zona d’ombra nella quale ha preso forma la mia fantasticheria. E il sole mi avrebbe subito svegliato, segnando con esattezza la realtà silenziosa e chiusa delle case vicine, i pochi passanti in strada, il tram che passa ogni ora. Caro professore di retorica, grazie per averci regalato un po’ di fresco tra assolati sudari brianzoli dai nomi nordafricani. La lascio al suo caffé.
Noli foras ire, Maxime Karissime! In te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas.