dal Periodico Araberara
UN SENSO DEL NATALE
21 dicembre
Giovanni Cominelli
La festa del Natale del 25 dicembre – ma per le Chiese cristiane che seguono il calendario giuliano essa cade il 6 gennaio – è una grande costruzione culturale ed emotiva, che tuttora affascina e coinvolge le generazioni presenti dell’Occidente cristiano. Si sa che Gesù non è nato il 25 dicembre dell’anno 1° dopo Cristo. Anzi, non è nato neppure nell’Anno 1°. Gli storici del Cristianesimo collocano la sua nascita tra il 7 a. C e il 4 a. C. Come a dire che Gesù è nato prima di Cristo. Il che è vero anche in un senso storicamente più profondo. Il Cristo della fede è nato in una data diversa dal Gesù storico. E’ nato dopo la morte/resurrezione del Gesù storico. Che sia morto è un fatto storico. Che sia risorto è, invece, una credenza di fede. E’ però, di nuovo, un fatto storico che questa fede ha fatto nascere il Cristianesimo e il Gesù storico è diventato il Cristo, cioè il Messia. Così è la Pasqua, non il Natale, la festa cristiana per eccellenza, perché è fondativa del Cristianesimo. Di lì in avanti quella che era una comunità formatasi attorno ad un profeta ebraico di Galilea di nome Gesù prende strade proprie. Oggi è la più grande religione al mondo per numero di credenti. Quanto al Natale, la prima celebrazione attestata è quella del 25 dicembre 336, durante l’impero di Costantino. Il Natale coprì e assorbi le feste pagane esistenti: quella dedicata al “Sol invictus”, che cadeva nel solstizio di inverno, e i Saturnali romani, che si svolgevano tra il 17 e il 23 dicembre. Durante i Saturnalia si tenevano grandi banchetti, si scambiavano auguri e piccoli regali, detti strenne, gli schiavi si potevano comportare in quei giorni come persone libere ed essere persino elette “princeps”, ma solo per scherzo e per qualche giorno. Le differenze sociali venivano abolite provvisoriamente e il mondo rovesciato. Così il Natale si è venuto costruendo come il giorno della pacificazione universale dei conflitti tra le persone e tra i popoli. Il racconto della capanna, della stella-cometa, dei Re Magi è un mito che continua a parlare a ciascuno di noi. Nella lingua greco-antica “mythos” significa una parola, un discorso, una narrazione, che vengono incontro a profondi bisogni umani: religiosi, morali, socio-rituali. Il mito è un ingrediente vitale della civiltà umana; non una favola, ma una forza attiva costruita nel tempo. Se la Pasqua è una festa escatologica, perché parla di resurrezione e di futuro, il Natale racconta di un Dio che mette i piedi nel fango della Storia e si mette a camminare non davanti a noi, ma al nostro fianco. Il Dio del Natale non è il Dio di Israele, un Dio etnico: è il Dio di tutti. Universalismo e pacificazione sono pertanto i messaggi essenziali di questo giorno. E’ evidente a tutti che non basta un giorno per fermare i conflitti, per cancellare le differenze sociali, per eliminare il Male dalla storia del mondo. Un giorno non basta, ma resta nella nostra speranza che sorga un “sole invitto”, che fenda le nubi oscure che ogni anno ricoprono la faccia del mondo. Il disordine mondiale sta arrivando alla linea rossa, geograficamente assai vicina ai nostri confini.
Perciò ci interroghiamo, all’arrivo del Natale 2024, circa il nostro futuro a rischio e il nostro incerto destino. Nella liturgia della Quarta domenica di Avvento, il profeta Isaia, come è riportato nel testo ebraico masoretico, ripreso letteralmente dalla Vulgata, si rivolge verso l’Alto con l’invocazione: “Rorate, caeli, desuper; et nubes pluant iustitiam; aperiatur terra, et germinet salvationem” – Stillate, o cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e germini salvezza”. Il profeta viveva, come noi oggi, tempi difficili tra il 765 e il 700 a. Cristo. Israele era sotto la minaccia dell’invasione assira, che infatti arrivò nel 721 a. C. fino all’assedio di Gerusalemme nel 700 a. C. Tanto gli Assiri quanti gli Israeliti si proclamarono vincitori dello scontro.
Non sappiamo se qualche giusto arriverà dal cielo. Qualcuno ritiene che si tratti di Trump. In ogni caso, noi dovremmo dedicarci ad “aprire la terra”, a dissodarla, affinché “germini la salvezza”. Oltre le immaginifiche metafore della lingua semitica, possiamo solo concludere che la direzione che prenderà il mondo dipende da ciascuno di noi, uno su otto miliardi di esseri umani. Le decisioni collettive finali sono sempre l’effetto dell’accumulo di micro-decisioni individuali. E quindi è dalle responsabilità individuali, qui e ora, che si deve partire. Come ha scritto di sé il poeta sufi persiano Al Rumi: “Ieri ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Oggi sono saggio e ho cominciato a cambiare me stesso”.