Per capire l’enciclica che sta per venire può essere molto utile partire da Confucio. Ma forse per chi non è confuciano può facilitare l’impresa arrivare a Confucio dal Colorado. Così proverò a presentare un importantissimo articolo apparso su La Civiltà Cattolica, partendo però dagli esiti di una recente ricerca scientifica, che nell’articolo non viene citata, e approdando all’enciclica “Frates Omnes”, analogamente assente nel testo, ma per me, o quanto meno per quanto ha provocato in me la lettura, punto di approdo di questo articolo intitolato “Rituale o ritualismo? Lo spirito del confucianesimo”.
Dunque, la premessa: un’importante ricerca scientifica condotta tre anni fa nei laboratori dell’University of Colorado dà base scientifica a quanto i settori più avanzati della scienza già ritenevano di aver capito sul funzionamento del cervello umano. Questa lavoro ha analizzato la condotta di molte decine di persone durante la lettura di storie su altrui sofferenze. Il risultato è stato formidabile. Ne ha scritto l’autorevolissima rivista Neuron e la conclusione, molto ampia, conduce a questo:“ Così hanno scoperto che l’attività del cervello associata all’empatia non è legata a una parte del cervello, come tendenzialmente viene processato un input sensoriale, ma diffusa attraverso tutto l’organo coinvolgendo diverse regioni. “Il cervello non è un sistema modulare nel quale una regione specifica gestisce l’empatia”, spiega Wager in un comunicato. “È un processo distribuito”. Ora accade che l’empatia è uno dei cardini del saggio che La Civiltà Cattolica dedica a Confucio ma che alla fine proprio su questo punto si estende a cristianesimo ed ebraismo. L’altro cardine è il rito.
L’articolo ovviamente parte dal secondo cardine, il rito, per l’importanza che ha in Confucio. Il lettore può rimanere un po’ sorpreso dal fatto che si esordisca citando la prescrizione confucianesimo di non usare il viola, ma l’escamotage alla fine si dimostra riuscitissimo. Confucio, spiega l’autore, più che con le parole insegna con i comportamenti. Ma allora a che servono i riti? E poi, cosa sono i riti, delle noie insopportabili? O non è un rito anche darsi la mano? Proprio questo tempo di pandemia ci ha fatto capire quanto conti un rito…
L’autore, padre Benoît Vermander, ci aiuta con grande pazienza a uscire dalla piccolezza del nostro linguaggio, cominciando da una decisiva citazione di Confucio: «I riti esplicitamente sacri possono essere visti come un’estensione deliberata, intensificata e altamente elaborata dell’intercomunicazione civile quotidiana.» Che non si capisce bene se non si legge subito dopo: «La vita umana nella sua totalità alla fine appare come un rituale, allo stesso tempo vasto, spontaneo e santo: la comunità degli uomini.» Dunque, spiega l’autore, “nell’osservanza del rituale si compie un lavoro su se stessi (e innanzitutto sul corpo), che porta a una piena realizzazione personale, e al tempo stesso un lavoro sul sociale, affinché l’osservanza rituale sia fondata sul rispetto, sull’umanità e sulla giustizia.”
Questi riti, e il confronto su di essi, sono un po’ la traduzione cinese del confronto euro-occidentale sulle leggi. Ma se aiuta molto a capire quando l’articolo spiega che il rito proibisce il contatto tra le mani dell’uomo e della donna (cognato e cognata) al momento della consegna del cibo, la chiosa che sarebbe scellerato il cognato che non si tuffasse in acqua per agguantare e salvare la cognata che sta affogando, riferita al discepolo di Confucio, Mencio, spiega il confronto che ha avuto luogo in quel contesto culturale in termini molto simili al famoso rapporto tra il riposo del sabato e l’uomo nel Vangelo.
Proseguendo si arriva a capire che i riti servono anche a limitare l’arbitrarietà del potere, oltre che a indirizzare le relazioni interpersonali in senso orizzontale, svolgono cioè anche una funzione regolatrice verticale. E’ qui che il confronto confuciano, taoista, normativo, dogmatico viene raccontato consentendoci di entrare con parametri anche nostri in un altro contesto culturale. “Curiosamente, la connessione del rito con le questioni di vita e di morte è presente anche nei taoisti, che spesso vengono considerati contrari per principio alle convenzioni sociali. Quando sua moglie muore, Zhuangzi si accovaccia su un vaso, lo percuote come un tamburo e canta. Se in questo gesto c’è una chiara violazione delle regole confuciane, è possibile anche trovarvi un «controrituale» (che ricorda fortemente le pratiche sciamaniche), volto a celebrare la continua trasformazione di ogni cosa, la fluidità della vita, che adotta costantemente nuove espressioni.
In fondo, la celebrazione del rito effettuata dai cinesi prima dell’avvento dell’Impero delinea l’utopia di una società nella quale le relazioni interpersonali, come pure quelle che uniscono l’umanità al soprannaturale, sarebbero così ben regolate e interiorizzate che nessuna autorità centrale si potrebbe imporre, eccetto quella di un potere di natura simbolica, che rimarrebbe «immobile come la stella polare».”
Questo discorso però richiede di incontrarsi con l’empatia. Fondamentale nella cultura cinese come nella nostra. In cinese l’empatia è “Ren”, ci fa sapere l’autore, sottolineando che può essere tradotto anche con benevolenza. Ma è “empatia” il vocabolo più chiaro a mio avviso, perché la benevolenza mi sembra poter indicare anche un atteggiamento “paternalistico”. Il nesso tra rito e empatia (benevolenza) viene presentato così: “La pratica rituale, come viene presentata dal filosofo cinese e da alcuni testi successivi, al tempo stesso comanda e libera. Simile all’esecuzione musicale, essa rivela il grado di sincerità e di libertà interiore dell’esecutore. L’uomo che vive secondo l’umanità e i riti può essere paragonato a uno dei vasi sacri in cui i doni rituali vengono offerti in modo giusto: egli viene in qualche modo santificato dalla sua pratica. Allo stesso tempo – è bene notarlo – l’esercizio dei riti al di fuori del substrato fornito dalla virtù di umanità è solo una lettera morta, una lettera dalla quale si è allontanato lo spirito: «Un uomo privo di benevolenza (ren), che relazione può avere con le antiche norme rituali? Un uomo privo di benevolenza, che relazione può avere con la musica?» Impressionante: è impressionante pensare che il nesso tra quello che possiamo presentare come “verità” (il rito) e “l’umanità”, cioè il ren, l’empatia, risuoni in questo passaggio tutto interno all’universo cinese identico a quello usato da Papa Francesco per definire Carlo Petrini un “agnostico pio”. E’ la pietà che definisce l’umanesimo dell’agnostico Petrini agli occhi dell’umanesimo cattolico che vive in Francesco. Perché noi possiamo avvertire che è la pietà a definire l’umanesimo cattolico di Francesco?
Questa mia idea può essere anche fuorviante ma mi è servita molto a convincermi di poter ritenere questo articolo in stretto legame con l’enciclica sulla Fratellanza umana. Questo senso riporta proprio all’empatia e l’articolo la esplicita nelle righe che seguono il passaggio sul rito come elemento che sa determinare e limitare quindi il potere esercitato dall’autorità centrale. L’autore definisce quella visione un’utopia che è stata contrastata dai legalisti, che hanno ritenuto che solo la paura delle punizioni e l’oggettivazione delle leggi possano porre rimedio ai disordini dilaganti. L’utopia ritualista verrà poi recuperata dall’Impero Han, ma allora diventerà il rivestimento ideologico di un potere forte e si trasformerà facilmente in ritualismo. In diverse occasioni pensatori cinesi ricorderanno l’insistenza originariamente posta sui riti, ma appariranno come la giustificazione di un potere procedurale, gerarchico e patriarcale. Questa oscillazione non è diversa da quella avvenuta nel contesto ebraico, e in seguito nel mondo cristiano: l’adorazione da rendere a Dio deve essere «in spirito e verità» (Gv 4,23); la lettera della legge, come quella del Rito, reca la morte, se lo spirito non la vivifica e conduce a superarla. Sia il rito sia la legge sono fasi di un processo educativo, fino al momento in cui il cuore insegnerà istintivamente la condotta interiore che piace al Cielo. «Il Maestro disse: “A quindici anni ero dedito allo studio, a trenta ero saldo [nell’osservanza delle norme], a quaranta non avevo dubbi, a cinquanta compresi il decreto celeste, a sessanta sapevo ascoltare e a settanta seguivo gli impulsi del mio cuore senza incorrere in trasgressioni”».
Dunque è l’empatia il cuore dell’uomo, perdere l’empatia è perdere il nostro cuore in Cina come altrove. Dunque ogni educazione morale vuole aiutarci a ritrovare il nostro cuore? L’esperimento da cui siamo partiti, quello realizzato all’università del Colorado, ci aiuta a capire non se ma come siamo tutti fratelli. E le diverse strade che possono condurci a ritrovare il nostro cuore mi fa pensare che esistono tante strade diverse per arrivare al nostro analogo cuore, e tanti fondamentalismi magari opposti per fuggirne, negando però tutti insieme che siamo tutti fratelli.