Un programma come quello che Enrico Letta deve realizzare, ha bisogno – come qualsiasi progetto di cambiamento – di identificare azioni che consentano in tempi brevi di conseguire risultati che conquistino consenso a ulteriori, più complesse riforme. Un progetto di marketing del turismo e dell’industria italiana della cultura e della creatività è, forse, la migliore possibile opportunità per dare un segnale forte di cambio di marcia. Ed il Sud potrebbe essere il terreno sul quale prioritariamente giocare questa partita.
Per riuscirvi però abbiamo bisogno di tre cose: un livello di risorse pubbliche che sia allineato a quello dei nostri concorrenti; una conoscenza molto maggiore dei bisogni e dei desideri di chi volesse visitare il nostro Paese e, dunque, la rinuncia definitiva all’illusione di essere al centro del mondo; ma soprattutto persone scelte sulla base della capacità di conseguire specifici obiettivi e di attrarre finanziamenti privati. Un ministro per la cultura con un piede nel Sud ed una forte conoscenza dell’industria turistica globale, potrebbe essere una delle più novità più interessanti di un Governo intenzionato a risolvere i problemi.
La posta in gioco è elevata, come percepisce chiunque abbia la ventura di visitare quello che è ancora il Paese più bello del mondo. L’Italia, con i quarantasette siti riconosciuti dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, è il leader naturale di uno dei settori che cresce di più: negli ultimi trent’anni, lo spostamento di centinaia di milioni di persone dalla povertà assoluta alla classe media ha prodotto una crescita del fatturato dell’industria turistica superiore all’otto per cento all’anno. Tuttavia, per l’Italia della seconda Repubblica è stato come perdere in casa nella partita più importante: se nel 1995 eravamo la prima potenza turistica del mondo, dopo vent’anni stiamo scivolando al sesto posto.
I calcoli presentati ad una recente conferenza a Londra sulle prospettive dell’economia italiana dal think tank Vision confermano che basterebbe recuperare la metà dello svantaggio accumulato nei confronti della Francia per aggiungere trecentomila posti di lavoro e un punto al Prodotto Interno Lordo. Non è diverso il discorso sul settore – collegato al turismo – dell’industria della cultura: in Europa mediamente il 5,5% dei lavoratori è occupato in questo settore; nel Paese con la più alta intensità di simboli del genio artistico la percentuale è del 2,2%. Tutto ciò è ancora più vero per il Sud: Sicilia e Campania con dieci siti UNESCO – la metà di quanti se ne contano negli Stati Uniti – ospitano ogni anno la metà dei turisti che arrivano nella sola Andalusia, e Napoli non riesce neppure a essere tra le prime dieci città italiane per numero di imprese culturali.
Come detto, sono tre le condizioni essenziali per riuscire.
La prima è allineare la spesa dello Stato a quello dei nostri concorrenti. Nel 2011, secondo la Commissione Europea, l’Italia ha speso nella valorizzazione dei beni culturali un miliardo e mezzo; la Spagna cinque, la Francia otto. Un miliardo e mezzo è del resto meno di un ventesimo di quello che spendiamo per la difesa in tempo di pace.
In secondo luogo, dobbiamo cominciare proprio dal turismo a rinunciare all’idea di essere speciali. Non è possibile competere – laddove anche se non lo volessimo, Napoli è in competizione con Siviglia o con Atene ogni qualvolta un turista americano o cinese programma il proprio viaggio – se non so chi sono i miei “clienti” attuali o potenziali, quali sono i fattori che considerano nella scelta, a quali media sono esposti per raggiungerli in maniera efficiente, come sono posizionato rispetto alle altre città su quei fattori.
Infine, è una questione di persone. Se è vero che esiste un principio di rottamazione che sta – inesorabilmente – cambiando la politica italiana, esso vale anche per i dirigenti che per decenni hanno gestito politiche così importanti con la logica dell’amministratore di un condominio. È proprio dal turismo che si può, del resto, far partire la riforma che faccia cadere il monopolio da parte di uno Stato senza quattrini e imponga che chiunque gestisca beni pubblici vada valutato, remunerato, selezionato sulla base dei risultati. In termini di conquista di quote di mercato delle città italiane su determinati segmenti di turisti. Ma anche di capacità di coinvolgimento di capitali privati, ancora meglio se internazionali, che apportino competenze e aspettative di professionalità: su questo aspetto, lo stesso intervento di Fabrizio Barca su Pompei mostra di non aver colto quella che è una opportunità importante.
Un progetto di marketing dell’Italia. Ed in particolar modo del Sud, perché nel Mezzogiorno, il ritardo, e dunque, i margini di crescita sono ancora più elevati, e maggiori sono le risorse che la Commissione Europea destina all’Italia nei prossimi sette anni.
L’opportunità è così grande da suggerire a Enrico Letta la possibilità di affidarne la regia dell’operazione ad una persona capace di una forte conoscenza del territorio e delle sue complessità, ma anche dei circuiti internazionali nei quali quei territori vanno inseriti. Potrebbe essere uno dei tanti talenti che il Sud ha prodotto in questi anni solo per vederli inesorabilmente emigrare per utilizzare altrove il proprio potenziale.