THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Un approccio nuovo alla semplificazione

È la quotidianità a raccontare – meglio di qualsiasi analisi quantitativa o confronto internazionale – quanto questo Paese abbia un disperato bisogno di semplificarsi.

Basta perdere un portafoglio per capire quanto sia ancora grande la distanza tra le aspettative della Società dell’Informazione e la vita reale, i cui tempi sono spesso dettati da uno Stato che fatica a trovare un’identità diversa da quella che gli diede nel diciottesimo secolo Napoleone Bonaparte.Forse, l’agenda digitale che il Governo sta per presentare può rappresentare un punto di svolta in una battaglia che tanti illustri professori – ministri hanno perso.

Perdere una patente significa fare una denuncia al più vicino commissariato di Polizia, operazione che nel 2014 dovrebbe essere possibile (almeno per eventi di gravità minore)in via telematica: ciò consentirebbe non solo di risparmiare tempo, ma di alimentare direttamente con un maggior numero di informazioni un database centrale che moltiplicherebbe la capacità investigativa delle forze dell’ordine. La patente nuova dovrebbe essere, poi, immediatamente inviata a casa dopo un controllo in tempo reale. Invece, se per qualche oscuro motivo essa non è “duplicabile”, bisogna rifare foto e documenti e fare un’altra coda al più vicino ufficio della motorizzazione civile o dell’ACI ed il pagamento va effettuato attraverso un modulo che si trova solo presso gli uffici postali. Ma ancora più a monte ciò che non si capisce è a cosa serve la patente in quanto tale: visto che, quando i vigili fermano un automobilista, devono accedere ad una banca dati (che evidentemente esiste) per controllare le informazioni aggiornate che non possono essere su un inerte tesserino plastificato.

L’episodio banale della patente, moltiplicato virtualmente all’infinito per tutti i certificati, costa, secondo calcoli di qualche anno fa della Commissione Europea, circa 70 miliardi di euro all’anno: una cifra sufficiente per scongelare un’economia che si avvia al quattordicesimo trimestre senza crescita. Soprattutto, è un caso che può far ripensare – più di tanti libri – alla storia paradossale dell’amministrazione pubblica italiana negli ultimi vent’anni.

Com’è possibile che il Paese che ha fatto, secondo l’OECD, il maggior numero di riforme dell’amministrazione pubblica, è il Paese dove meno è cambiato negli ultimi decenni? Come è possibile che dopo aver sancito con la Legge l’introduzione del domicilio elettronico ed aver speso centinaia di milioni di euro per dotare le imprese di una posta certificata (che in altri Paesi non c’è), non è ancora previsto che un cittadino o un’azienda possa chiedere che tutte le comunicazioni che lo riguardano arrivino sulla sua casella elettronica? Una norma di questo genere avrebbe l’effetto immediato di tagliare, secondo alcuni magistrati, un terzo del tempo consumato da processi la cui lentezza è uno dei fattori che maggiormente scoraggia chi voglia investire in Italia? Come si spiega che gli indicatori dell’agenda digitale europea dicono che l’Italia è – pochi lo sanno – al secondo posto per offerta di servizi digitali da parte delle amministrazioni (dopo la Svezia), ma al ventiquattresimo per utilizzazione di tali servizi da parte dei cittadini? Come è possibile che si comincia sempre dall’alto e che le montagne dalle nostre parti partoriscono così spesso ridicoli topolini?

Il Ministro Madia sembra, in effetti, avere la consapevolezza delle persone normali alle quali capita di smarrire i documenti, di sentire il fastidio di tanto rumore per nulla e l’urgenza assoluta di provare un approccio diverso.

L’accordo tra Governo, Regioni e Comuni che è il preludio dell’Agenda per la Semplificazione, sembra preventivamente assicurare un accordo di tutti gli enti interessati, per aggredire un problema nella parte più debole: quella dell’implementazione di norme che già ci sono. In materia fiscale, edilizia, welfare e salute, imprese. Attorno ad un concetto che adesso va riempito di contenuti: quello della cittadinanza digitale. Cominciando da chi è pronto per il salto (i più giovani), ma con l’obiettivo –  attraverso un investimento in competenze e logistica mobile – di raggiungere tutti gli altri (persone anziane, quelli che abitano in località remote). Inoltre, è interessante l’idea di impegnarsi – collettivamente – su un cronogramma con tempi e responsabilità precise.

Il metodo che il Governo propone è interessante, ma ne vanno consolidate cinque caratteristiche.

In primo luogo, va abbandonata l’idea della riforma palingenetica e va sostituita con un processo di cambiamento continuo, fatto di miglioramenti anche piccoli suggeriti dagli stessi cittadini. Cittadini che devono superare la fase della lamentela senza sbocchi e diventare parte attiva della trasformazione. Il coinvolgimento delle persone (che vale più del loro voto) è vitale per superare la resistenza di chi vive di certe inefficienze e per incentivare enti come le Camere di Commercio, ad esempio, a dare valore ai servizi che vorranno proporre a contribuenti finalmente liberi. Va bene il processo di consultazione dei cittadini attraverso il sito della funzione pubblica: esso va però orientato alla proposta puntuale, attraverso format di discussione sperimentati in altri Paesi.

In secondo luogo, è indispensabile accettare che cambiare significa gestire l’incertezza: la strategia per la crescita dei servizi digitalideve diventare un quadro di riferimento vivo.Un insieme di sperimentazioni che si propongono di risolvere specifici problemi, accettando il fallimento come parte di un processo di apprendimento, valutando i risultati, in maniera che essi siano –davvero – riutilizzati.

Fa inoltre bene il Governo a usare gli strumenti più rapidi possibili per cambiare – atti amministrativi, decreti leggedi semplificazione ogni sei mesi.La legge la dovremo usare, ma solo per ridurre drasticamente le leggi. Paradossalmente il bicameralismo perfetto non ha impedito che il nostro parlamento ne continui a produrre– secondo i dati della Camera dei deputati – tre volte di più degli inglesi. Cosi oggi esse sono talmente tante da creare l’incertezza, quello spazio che viene occupato dai burocrati, dagli avvocati e dalle agenzie delle entrate che nessuno ha mai eletto.

Spesso sarà molto più utile saltare avanti agli altri, abrogare, ad esempio,gli adempimenti inutili – come la patente – piuttosto che perdere tempo a informatizzare ciò che non ha più senso (anche perché ciò ne renderà poi più difficile l’eliminazione).

Utile, infine, è cominciare a pensare di usare come leva la competizione tra Enti e non solo la cooperazione aspettando che facciano “sistema” (mai parola fu così abusata dal diventare incomprensibile).Uno degli errori capitali è stato aspettare di essere tutti d’accordo per andare avanti. La novità sarebbe sostituire la pretesa di grandi integrazioni di interessi,con l’adesione volontaria a applicazioni nuove (come il login proposto dalla strategia digitale) lasciando agli elettori il compito di premiare chi ha innovato e chi, invece, per mancanza di coraggio o perché non ha utilizzato bene le proprie risorse, è rimasto indietro.

Semplificare significa, per definizione, farlo con un metodo flessibile. L’errore di certi Professori è stato pensare di poterlo fare come se questa potesse essere l’ultima battaglia di Napoleone. Invece, è una guerra che dovrà sfruttare l’informazione che la tecnologia ha diffuso ovunque. Una questione molto più politica, molto meno tecnica di quanto abbiamo ritenuto per venti lunghissimi anni di stagnazione e convegni paludati.

Articolo pubblicato su il Messaggero ed Il Gazzettino del 1 Dicembre

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