Potrebbe sembrare un paradosso che la tensione tra Russia e Ucraina, iniziata subito dopo il collasso dell’Unione Sovietica e proseguita per venticinque anni a colpi di cause miliardarie e interruzioni di metano, stia raggiungendo il punto più elevato proprio adesso. Adesso che il prezzo del gas ha perso più della metà del suo valore in un anno e la Russia sta per completare (nel 2018) la costruzione dei gasdotti che dovrebbero metterla nella condizione di non far passare più per l’Ucraina le forniture di energia all’Europa dalla quale dipende la sua bilancia commerciale. Del resto, non c’è praticamente nessun analista che riconduce alle dispute sul gas, il conflitto che secondo il primo ministro russo Medvedev rischia di portarci vicino all’incidente nucleare che abbiamo evitato per settant’anni.
Potrebbe sembrare un paradosso ma non lo è. Se cominciamo ad abituarci all’idea che, forse, sta per finire un mondo che era basato sul petrolio, nel quale era il petrolio e il suo prezzo a spiegare buona parte delle guerre e delle recessioni e ad esserne influenzato. Quell’ordine globale non è stato ancora sostituito, però, da una visione nuova e, in fin dei conti, i conflitti che stiamo vivendo possono esserne il pericolosissimo colpo di coda.
Nell’ultimo numero dell’Economist si legge che se in Arabia Saudita, il trend di crescita dei consumi interni continuasse e la redditività di ulteriori trivellazioni continuasse a declinareinsieme al prezzo del petrolio, nel 2030 il Paese non avrebbe più una goccia di petrolio da esportare. Ciò metterebbe in ginocchio la monarchia per la quale sembra essersi fermato il tempo al medioevo, nonché lo Stato più stabile del Medio Oriente e quello che silente ne governa molte delle contraddizioni. Emetterebbefuori dal mercato che ha dominato per sessant’anni il Paese che produce più petrolio, nonché quello che ne ha le riserve accertate più estese.
Questo forse sarebbe il colpo finale ad una serie di drammatici rimescolamenti di carte che si giocano attorno ad una frattura che corre tra Kiev fino a Tripoli passando per i set dello Stato Islamico e arriva fino ai fornelli e alle pompe di benzina sotto casa. Ci sono almeno quattro trasformazioni potenti che rendono il crollo del prezzo del barile un elemento permanente che spinge il mondo a cercare un nuovo ordine mondiale. E nessuna di esse ha a che fare con l’esaurimento delle riserve che i catastrofisti avevano periodicamente previsto.
Quella più famosa – loshale gas che ha trasformato l’America in esportatore netto di metano e la sta avvicinando all’indipendenza – èanche la più piccola. Il gas da argille continua a rappresentare una quota piccola (inferiore al tre per cento) della produzione di energia mondiale, quota destinata a calare se il prezzo del petrolio rimanesse così basso. Anche se il Paese che ne ha maggiori riserve è proprio la Cina e se essa dovesse dotarsi delle tecnologie per ripetere il miracolo americano, ciò ne cambierebbe totalmente la politica estera finora dominata dall’ossessione di non rimanere senza benzina.
Una rivoluzione ancora più grande sta avvenendo, però, nelle città dell’occidente ed ècominciata almeno quindici anni fa: in Germania e negli Stati Uniti si consuma, oggi, una quantità di energia inferiore a quella consumata nel 2000, nonostante il fatto che in quindici anni il prodotto interno lordo delle due economie più forti dell’occidente sia aumentato del trenta per cento. Aumenta l’efficienza e diminuisce la quantità di energia che ci serve per produrre ricchezza: persino in Cina, se nel 1990 ci volevano più 500 chili di petrolio per 1,000 dollari di PIL, oggi, secondo la Banca Mondiale, ne sono sufficienti meno di 200. Del resto, come da anni consiglia Jeremy Rifkin, l’energia alternativa che costa di meno è quella che risparmiamo:le automobili – il vero totem della civiltà fondata sul petrolio – presentano spazi di efficienza finora solo sfiorati, visto che continuiamo ad usare oggetti che pesano una tonnellata per spostare mediamente 100 chili di carne umana.
Non meno rilevante è il fatto che non solo cala la domanda di energia, ma se ne modifica la composizione. La bolletta del futuro sarà fatta di più elettricità necessaria a collegare telefoni e oggetti intelligenti (legati dalla nuova “rete delle cose”) e sempre meno carburante fossile per spostare motori a scoppio, destinati a essere progressivamente sostituiti – come sta già succedendo a Berlino – con quelli elettrici che consumano dieci volte di meno.
Infine, le fonti energetiche rinnovabili stanno diventando, finalmente, competitive, come dimostra l’aumento di risorse che vengono messe a disposizione delle banche d’affari per il settore. Ci stanno riuscendo più grazie alla ricerca di start up assai innovative che agliincentivi a pioggiadegli Stati che miravano a creare artificialmente economie di scala.
Con l’energia diffusa il capovolgimento del paradigma della civiltà del petrolio si compie. Proprio come è successo con Internet al sistema dell’informazione, le griglie che consentono scambi di energia che vanno in tutte le direzioni stanno trasformando ciascun consumatore in un potenziale produttore.A Londra così come a Rio si moltiplicano i palazzi che cedono più elettricità di quanto ne utilizzino.
Le conseguenze della somme delle nostre quotidianità sull’economia e sulla politica mondiale assomigliano a quella che può avere una palla di neve che si trasforma in valanga. Le major del petrolio che, spesso, facevano la politica prima degli Stati, si stanno ridimensionando – come è già successo ai colossi dell’automobile – attraverso ristrutturazioni e fusioni. Il Medio Oriente – con le sue crisi infinite e spesso artificiali – perde centralità e anche il conflitto tra Palestina e Israele dovrà approdare presto nel mondo normale. La Libia rischia di ridiventare “solo” un esportatore di naufraghi e un deserto senza valore. La Russia perde molte delle sue armi di ricatto e la Cina potrebbe risolvere il suo problema strategico più grande. Dittatori che potevano accontentarsi di controllare i pozzi per alimentare patrimoni sconfinati, dovranno rassegnarsi all’idea di dover costruire economie basate sul talento e sul consenso dei propri cittadini.
Certo, la storia non si fa solo con i trend di medio periodo. Nell’immediato proprio la prospettiva di non avere un futuro può portare a colpi di coda,a cercare di forzare la situazione prima di ritrovarsi senza forze. Ed è quello che spiega perché Putin ha scelto di attaccare proprio adesso.
Per chi sta provando a chiudere un ciclo che non era più sostenibile, per gli Stati Uniti e l’Europa, la sfida èquella di concepire un modello alternativo. Di sostenerlo subito con decisioni coerenti chiamando il bluff di chi non ha più prospettive. Altrimenti il buco di visione lascia al posto di un ordine che si è sciolto, un disordine globale che può ancora – come insegna la teoria del caos – determinare esiti opposti a quelli verso i quali la ragione ci muoverebbe.