“Vi è un circolo ermeneutico infernale: le paure legittimano la repressione, che crea l’estremismo, che giustifica le paure.”
Scritta nel 2013, pochi mesi prima del suo sequestro, questa frase da sola potrebbe indicare tutta la forza e attualità della predicazione di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato quattro anni fa a Raqqa. Diciamo sequestrato, sebbene nessuno abbia mai rivendicato il suo sequestro. Cosa può essergli accaduto? Non lo sappiamo. Sappiamo però che la sua presenza in Siria, dove era rientrato clandestinamente dopo l’espulsione decretata nel 2012 dal regime di Bashar al Assad, era una sfida, insopportabile. Una sfida per tutti quei poteri fondati sulla barbarie e che intendono fare della Siria o un sedicente stato confessionale o famigliare. E lui, Paolo, lo sapeva. Sapeva di incarnare una sfida entrando in un conflitto dove le paure legittimano la repressione, che crea l’estremismo, che giustifica le paure. E siccome lui credeva nell’amicizia, nella fratellanza islamo-cristiana, voleva sfidare questo conflitto che usava e usa le religioni conto l’altro.
Paolo è stato sino a quel giorno la voce narrante più autorevole di una storia che doveva restare sconosciuta, rimossa; la storia di una rivoluzione nonviolenta in terra araba, in terra islamica. E la coniugazione di non violenza, mondo arabo e islam è la più importante per il futuro. Fermarla potrebbe riuscire a rendere tutto il Mediterraneo impermeabile alla nonviolenza: basta osservare come sono cambiate le nostre società, quanto l’odio sia penetrato nel nostro vissuto, nella nostra realtà politica, culturale, sociale. Paolo è stato, e sarebbe, la voce narrante più forte di quella storia che andava cancellata, negata. La storia che lui ha portato a galla attraverso, ad esempio, Ghiyat e Caroline. “Nel marzo del 2011 – aveva scritto Paolo – Ghiyat Matar andava a offrire l’acqua fresca ai soldati e porgeva loro dei fiori. Fu torturato e ucciso. Una giovane donna, Caroline Ayoub, era andata a distribuire uova di Pasqua di cioccolato ai figli dei rifugiati con un versetto del Corano e parole del Vangelo. E’ stata arrestata e torturata. Le persone venivano torturate perché il governo non poteva concepire né, tanto meno, accettare la nonviolenza.”
Abbiamo scritto molto, in Europa, sulla scristianizzazione sovietica, i lager, i pope affogati, i valori vilipesi. Molti l’hanno chiamata l’ultima deriva “asiatica” portata in terra russa dai figli di Gengis Khan. Ma quanto questi figli abbiano pesato sul corpo politico arabo contemporaneo è stato sottovalutato. “ Quando arrivi a superare la paura, la prima volta che scendi in strada, che riesci ad aprire la gola e gridare libertà , diventi un’altra persona. Passi dalla condizione di schiavo a quella di cittadino. Quando riesci a mettere in dubbio che il presidente sia un dio, dopo che te lo hanno insegnato fin dalla scuola materna, quando riesci a separare verità e autorità, a distinguere oggettività e potere, e in piazza domandi dignità, allora senti di vivere un momento di libertà, di verità, di autenticità. E la cosa più incredibile è che ti arrestano per questo, ti torturano, ma il giorno dopo scendi di nuovo in piazza. Perché non possono più colpirti al cuore della tua dignità ritrovata, di uomo libero. Anche se ti picchiano, se ti obbligano a ripetere che Bashar è il tuo dio. La tortura non intacca questa dignità ritrovata.” Leggere Dall’Oglio ricorda da vicino il leggere Camus, e il suo Uomo in Rivolta è profondamente mediterraneo, una rivolta camusiana, né rivolta metafisica né rivoluzione destinata a rivelarsi nemica dei suoi figli, ma rivolta umana, e in Dall’Oglio islamo-cristiana, come la sua ermeneutica del testo sacro spiega benissimo.
La lettura della Sacra Scrittura, ha sottolineato più volte padre Paolo, spinge la Chiesa all’autoidentificazione con il popolo eletto, si riconosce in Sara, in Giacobbe. Questa lettura a suo modo di vedere fa perdere parte del pathos del testo, del dramma morale. In un cruciale testo del 2007, apparso sul web magazine dei gesuiti, “Popoli”, Dall’Oglio scriveva: “Uno dei testi che più drammaticamente rappresenta questo discorso è la vicenda di Abramo e di Ismaele, il figlio che egli aveva avuto con Agar, la serva di Sara (cfr. Gen 21, 8-21) E’ il dramma in cui Abramo deve sacrificare il suo primogenito. Secondo i musulmani il Corano sembra dire che il sacrificato è proprio Ismaele. Intendiamoci, non c’è uno sgozzamento di Ismaele, ma c’è un’obbedienza penosa, sofferta, di Abramo alle gelosie di Sara. Su indicazione di Dio, Abramo scaccia Ismaele e sua madre Agar. Così, quando Dio chiede ad Abramo di offrire il figlio Isacco, in realtà Abramo ha già offerto Ismaele. Ismaele è il primogenito. Se imparassimo a leggere il mistero della Chiesa nell’esclusione e non solo nell’elezione, allora le cose si illuminerebbero con altra luce. Abramo obbedisce alla logica dell’elezione e caccia la sua serva. Ma nella logica evangelica è proprio l’escluso che diventa l’eletto.” Il discorso si fa seducente e i simboli raccontati con cura da padre Paolo parlano davvero: Abramo dà ad Agar pane ed acqua, segni sacramentali. Ismaele buttato sotto un arbusto del deserto ricorda a Dall’Oglio la croce, Agar nascosta dietro il suo velo di sofferenza, carica del figlio, gli ricorda Maria sotto la Croce, le prime lacrime della Bibbia sono le lacrime di Agar, lacrime materne. Poi nel deserto sgorga salvifica l’acqua (come si ricorda ancora oggi nel pellegrinaggio) e questo per padre Paolo ricorda il grido di Gesù: “ho sete!” “Si individua così un’interpretazione di questo episodio dell’Antico Testamento che, pur riconoscendo i segni dell’elezione, tuttavia si fa carico dell’esclusione” e questo a suo avviso dà valore cristologico ed ecclesiologico al grido degli esclusi, alle volte terrificante, “ma pertinente la storia della salvezza.”
Qui l’ermeneutica di padre Paolo diviene parte integrante della teologia dei poveri che papa Francesco va elaborando da quando ha parlato di Chiesa povera, e per i poveri. Vedere nelle ferite e nelle sofferenze dei poveri la ferite e le sofferenze di Cristo appartiene alla teologia, all’ecclesiologia degli esclusi di Dall’Oglio.
Così oggi, mentre chiudiamo gli occhi sul vero significato della “richiesta libica” di combattere nelle loro acque i “trafficanti” di uomini, mentre omettiamo gli orrori contro i civili di Raqqa, mentre omettiamo gli orrori di Mossul, mentre cioè ci rifiutiamo di vedere gli esclusi, gli emarginati, le vittime, la voce di padre Paolo torna fortissima, chiarissima, come il messaggio di Ghyiat e Caroline, che molti avrebbero voluto fosse taciuto per sempre.