I cambiamenti nella dimensione della vita simbolica di un’identità, individuale o collettiva, sono spesso i più difficili da realizzare. Che il cambiamento arrivi come esito di un lungo processo o che sia uno ‘strappo’ realizzato per imprimere un nuovo corso ad una storia, è proprio sul piano dei simboli che si esita di più; i simboli ci mettono davanti al noi che siamo o vogliamo diventare, ci costringono a fare i conti con possibili, provvisori punti di non ritorno.
Per questo, quanto accaduto in Turchia la settimana scorsa ha una rilevanza difficilmente sottostimabile. Il 29 ottobre sono stati celebrati i novanta anni della Repubblica, senza seri traumi. Le celebrazioni ufficiali si sono tenute alla presenza delle massime autorità politiche, Presidente della Repubblica e Primo ministro, autorità militari e leader dell’opposizione (non tutti), nonché al cospetto delle mogli di Presidente e Primo ministro, anch’esse in prima fila sui palchi ufficiali. Nulla di strano, si potrebbe pensare, senonché la presenza di queste ultime – entrambe velate – ha causato negli anni passati la secessione di leader dell’opposizione e vertici militari, l’organizzazione da parte delle élite kemaliste di commemorazioni separate e contro-celebrazioni da cui le consorti velate erano escluse. Polemiche e contro-manifestazioni, anche quest’anno presenti, hanno ora lasciato il terreno dei simboli religiosi e assunto un carattere di opposizione al governo del tutto politico, che non chiama in causa simboli religiosi.
Due giorni dopo, quattro parlamentari dell’AKP, il partito al governo, hanno fatto il loro ingresso in aula indossando il velo. L’ultima volta era accaduto nel 1999, e Merve Kavakçi, la parlamentare che aveva osato profanare la sacralità di un tempio del laicismo kemalista come l’aula parlamentare, era stata costretta a lasciare il suo posto, il Parlamento e il paese. Questa volta, i partiti di opposizione hanno scelto il basso profilo. I mal di pancia all’interno del CHP, il principale partito di opposizione nelle cui schiere esistono ancora forti posizioni kemaliste, sono stati fatti rientrare per non commettere pesanti errori autolesionistici; gli altri principali partiti di opposizione, l’MHP espressione di posizioni nazionaliste e il BDP espressione della minoranza curda, hanno giudicato il fatto come normale in un regime di libertà, e salutato con favore la ‘normalizzazione’ dell’evento.
Come si sa, la questione del velo in Turchia è stata al centro delle più aspre battaglie politiche e giuridiche degli ultimi decenni; che si chiuda così, senza che nessuna seria opposizione si alzi all’ingresso in Parlamento di quattro donne velate (a cui se ne aggiungerà presto almeno una quinta), può sembrare strano, o il sintomo – ad occhi laicisti – di una resa delle opposizioni e di una avvenuta islamizzazione del paese. Benché silenzioso, l’evento è in effetti epocale. Esso dice di una lenta e molecolare interiorizzazione di un principio di libertà, quello di esprimere la propria identità religiosa anche entro lo spazio politico attraverso i simboli, al pari della normalità della presenza di donne velate tra le più alte cariche istituzionali in occasione di celebrazioni pubbliche. Anche l’abolizione della coatta recitazione del giuramento di lealtà da parte degli studenti ogni giorno in classe con una formula che inneggiava al più retrogrado nazionalismo è un simbolo e un rito la cui cancellazione ha un forte significato pluralista, al pari dell’abolizione del divieto di usare le tre lettere dell’alfabeto Q, X e W, ree di richiamare suoni troppo arabeggianti. Si tratta di misure, queste ultime due, presenti in un pacchetto di misure per la democratizzazione di recente varato dal governo.
Un pacchetto giustamente criticato – nel paese e fuori – per la sua timidezza, per le omissioni più forti e pesanti di quanto siano i passi in avanti. E tuttavia un passo in avanti, per quanto modesto, è pur sempre un passo in avanti: se ne critica la prudenza, ma non ci si rammarica del passo comunque fatto. E poi, quando i cambiamenti investono il regno dei simboli, tornare indietro è più difficile; alla libertà e ai suoi simboli ci si abitua, ed essa diventa contagiosa. Da queste progressive aperture anche simboliche operate negli ultimi dieci anni dall’AKP è nata Gezi Park, o almeno la sua componente autenticamente democratica e pluralista, ossia dal gusto per l’abitudine acquisita alla libertà, che si rivolta contro lo stesso AKP e il suo leader quando tradiscono o limitano i diritti in nome di pulsioni autoritarie e di riflessi nazionalisti o kemalo-islamisti.
La Turchia post-kemalista sta progressivamente costruendo il suo nuovo universo simbolico. Quello dell’elaborazione simbolica è un laboratorio sempre in fermento, e nel caso della Turchia post-kemalista è un laboratorio da cui possono nascere simboli di grande significato anche per l’Europa. I novanta anni della Repubblica sono stati un’occasione per discutere temi come la continuità e/o discontinuità della ‘creazione’ di Atatürk rispetto al tardo impero Ottomano, o questioni spinose come le politiche assimilazioniste che hanno accompagnato il genocidio armeno, costituendone una parte integrante. Se, pur tra mille contraddizioni, la Turchia saprà accostare alla normalizzazione della possibilità di indossare il velo in parlamento il riconoscimento dei passati tentativi – spesso violenti, e soprattutto nel caso degli alevi tutt’altro che cessati – di assimilare le differenze e specificità di minoranze culturali, etniche e religiose, allora nuovi simboli emergeranno a darle espressione, a renderla visibile e tangibile alle menti e ai cuori dei suoi cittadini, come solo i simboli sanno fare, e a rappresentare almeno provvisori punti di non ritorno.