“Era una notte buia a e tempestosa…”. Così esordisce battendo sulla macchina da scrivere il cagnolino Snoopy delle strisce di Linus disegnate da Charles M. Schulz. È una parodia. Anticipata in molti romanzi e poi ripresa in innumerevoli occasioni. Ha accompagnato la mia giovinezza. È un invito a non prendersi troppo sul serio. Dileggia tutti i luoghi comuni, tutte le presunzioni. Notte e buio, giorno e luce, sono metafore mai tramontate, dalla notte dei tempi mi verrebbe da dire. Hanno espresso tutte le angosce e le speranze del mondo. “Ha da passà ‘a nuttata” dice Eduardo De Filippo in Napoli milionaria. Riassume la condizione umana.
Leggo che hanno restaurato The Warriors, “I guerrieri della notte”, il film del 1979 tratto da un romanzo di Sol Yurick. L’avevo visto a Venezia, il giorno dopo dovevo ripartire per l’Iran, dove seguivo da inviato la rivoluzione. Racconta l’anabasi notturna, nella metropolitana, di una gang giovanile, inseguita da bande rivali, attraverso tutta New York, dal Bronx a Coney Island. Non mi aveva allora fatto molta impressione. Veniva molto dopo West Side Story e quasi un decennio dopo Arancia meccanica. Solo Fuga da Manhattan 1997 è posteriore. Tutti e tre questi film sono anch’essi notturni. Hanno un bizzarro destino le date immaginate dalla fiction. Il film su Manhattan trasformata in un immane penitenziario a cielo aperto è del 1988.
Il 1997 sembrava allora data lontanissima, come 1984 per George Orwell che lo aveva pubblicato nel 1949. Volevano essere profetici. Ma non avevano immaginato l’attacco alle Torri gemelle. In fatto di violenza, in Iran a fine anni ’70 avevo già assistito a ben altro. Molti anni dopo sarei andato a vivere per sette anni a Manhattan, dopo aver attraversato per altri sette anni la Cina, gran parte dell’Asia e il Pacifico. Ho rivalutato The Warriors. La metropolitana di New York non è cambiata. Continua a correre tutta la notte.
“La notte è fatta per amare” cantava Neil Sedaka. Una mia compagna di liceo, della quale mi ero invaghito, rispondeva, sulla stessa aria: “La notte è fatta per dormire”. Il liceo era il Carducci di Milano. Quello ai cui cancelli hanno appeso i ritratti di Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi a testa in giù. Di cattivo gusto, senza dubbio. Il liceo è a due passi da Piazzale Loreto, dove il 15 agosto 1944 vennero fucilati dalla Legione Muti 15 partigiani detenuti a San Vittore. E poi l’anno dopo lì vennero appesi a testa in giù Mussolini, Clara Petacci e altri gerarchi fascisti. Si ricorda, in genere con disgusto, il secondo episodio, meno il primo. Le reazioni alla bravata degli studenti mi sono parse un tantino eccessive.
Non erano di buon gusto le vignette di Charlie Hebdo su Maometto. Ma quando islamisti fanatici gli hanno sparato non potevamo che dire: “Nous sommes Charlie”. Non è forse di buon gusto gridare “Marg bar Khamenei”, “A morte Khamenei”, come fanno le giovani e i giovani alle manifestazioni contro il regime in Iran. Ma non giustifica che li impicchino. Non fu di buon gusto lanciare uova contro il ritratto del Grande timoniere Mao in piazza Tiananmen nel 1989. Ma non giustifica che il giorno dopo mandassero i carri armati a schiacciarli.
Preferisco altre forme di protesta. Per esempio quella, straordinaria, che dopo il terremoto è esplosa negli stadi per protestare contro il governo Erdoğan e le responsabilità nella strage degli innocenti periti sotto le macerie: una pioggia di orsacchiotti e di altri peluche che hanno sommerso i campi di calcio. È stato uno schiaffo più sonoro di qualsiasi slogan al sultano di Ankara. Sarebbe un bel modo di protestare contro l’insensibilità per le stragi in mare. Li si potrebbe raccogliere, i giocattoli e i peluche, e poi spedirli ai bambini in Afghanistan, in Siria, in Ucraina e agli orfani in Russia, per rassicurarli che non saranno abbandonati. Purché non ci si fermi alla sola propaganda.
La notte è fatta per cospirare. Per dare sfogo alle proprie malinconie. Scatena i terrori atavici. Ma è fatta anche per giocare, pregare, divertirsi, studiare. Per fare politica: girondini e giacobini si riunivano di notte. L’idea di intrattenervi (o annoiarvi, ma spero di no) con uno zibaldone sull’argomento della notte e del buio mi è venuta leggendo, nottetempo ça va sans dire, un libro, molto scholarly, sulla notte nella Turchia ottomana: As Night Falls: Eighteenth-Century Ottoman Cities after Dark dello studioso israeliano Avner Wishnitzer (Cambridge University Press, 2022). Di notte cospiravano, gozzovigliavano e danzavano i giannizzeri, le leggendarie truppe d’élite, una specie di battaglione Wagner dell’impero ottomano, composte da bambini rapiti giovanissimi nelle terre cristiane. I giannizzeri furono sterminati dal sultano, al quale forse non servivano più, assieme ai mistici sufi bektaşi che gli piaceva veder danzare. Di notte si affollavano i locali e le bettole. Di notte giravano i ladri e i delinquenti. Di notte l’ordine era assicurato dalle ronde municipali, con le loro lanterne. Che immagino, costumi a parte, simili alla Ronda dipinta da Rembrandt, tranne che le ronde a Istanbul giravano in barca sul Bosforo.
L’intemperanza giovanile era un problema. Ma non ci fu mai alcun coprifuoco. Tranne quella volta che il sultano fu disturbato dai canti di comitive di diplomatici occidentali che passavano in barca davanti alle finestre del palazzo e minacciò punizioni severissime se non la smettevano. Talvolta ci furono retate nei bordelli. Ma non ci sono mai state ronde di polizia della morale, come nella Teheran degli ayatollah. L’alcol era proibito dall’islam, alcuni sultani zelanti cercarono pure di far rispettare il divieto, ma il raki è sempre scorso a fiumi. È rimasta nella lingua turca un’espressione che si potrebbe tradurre “tassa per non vedere”, insomma una specie di bustarella della tolleranza, del vivi e lascia vivere.
Tenera è la notte, il titolo carico di malinconia dell’ultimo romanzo di Scott Fitzgerald. Viene da un verso de L’Ode a un usignolo del romantico John Keats. “Ma non c’è più luce qui…”, prosegue pessimista la poesia. Il romanzo è ambientato in Europa, sulla costa azzurra, alla vigilia dell’occupazione nazista. Uno psichiatra e la sua paziente affondano nelle tenebre. Non c’è più nemmeno la parvenza di ottimismo, esuberanza, dell’America del Grande Gatsby.
La notte era il momento in cui si scatenavano i terrori. Le paure conscie e quelle inconscie. Le paure immaginate e quelle percepite. Paure ataviche, di quando per i nostri lontani antenati il terrore era che dal buio spuntasse qualche bestia feroce. O paure che ci portiamo dentro, da sempre. Più che paura della notte, sarebbe paura dei sogni, degli incubi e delle fantasticherie che sgorgano dal nostro inconscio. Per Sigmund Freud “l’angoscia dei bambini esprime la paura che la persona amata gli venga a mancare […]. Hanno paura dell’oscurità perché non si vede più la persona amata, e si tranquillizzano se possono tenergli la mano nel buio”. Io a dire il vero non avevo tanto paura del buio quanto della penombra. Mi terrorizzavano le ombre che sembravano muoversi a saltarmi addosso. L’appartamento aveva una sola stanza. Ricordo con piacere la mano calda e asciutta rassicurante di mio padre che raggiungevo da un letto all’altro.
A Istanbul, immensa città di case di legno riscaldate con i bracieri, il massimo terrore non era la criminalità, non erano i capricci del tiranno, e nemmeno la guerra, la peste o il terremoto, ma il fuoco, che più volte distrusse gran parte della città, mietendo un numero immane di vittime. Anche mia nonna usava il braciere. Ero attratto e al tempo stesso impaurito dai carboni ardenti. Mio padre si infuriò quella volta che ero malato e la nonna si mise a fare scongiuri con le braci.
A Istanbul ho trascorso la mia infanzia. Della notte ricordo con nostalgia le cene con abbondanza di meze, antipasti che poi sono il vero pasto, con la famiglia allargata sefardita di mia mamma, in occasione delle festività ebraiche, o ai ristoranti sul Bosforo, con botola sul pontile per tirare su con le nasse il pesce e gli astici ancora vivi. Wishnitzer dedica diverse pagine ai mestieri della notte. E soprattutto al gruppo più numeroso, i pescatori, impegnati a catturare, a seconda delle stagioni, l’una o l’altra delle specie di pesci, l’una più deliziosa dell’altra (dall’umile uskumru, lo sgombro, al kalkan (razza chiodata), al palamut, marinato in salamoia, trasformato in lakerda, al lüfer, il più saporito pesce azzurro che abbia mai mangiato).
Di notte talvolta venivano amici e parenti, e si giocava a carte. E c’erano le conversazioni infinite, che io bambino non riuscivo a seguire. Non c’era ancora la televisione. E comunque si andava a letto presto. Ho presente una scena: mio padre che guarda l’orologio e dice: “Sono già le dieci. Ultima smazzata. Poi si va a letto”. C’è chi distingue tra “notte astronomica”, “notte biologica” e “notte sociale”. I ritmi circadiani, dell’alternarsi delle attività umane intorno al giorno (circa diem), variano geograficamente e storicamente. Ci sono storici i quali sostengono che nell’Europa contadina, pre-industriale, si andava a letto presto, per poi svegliarsi a metà notte. C’era un “primo sonno”, fino alla mezzanotte, poi un “secondo”, fino all’alba. Nell’intervallo si stava in intimità, o ci si dedicava ai lavori domestici, oppure allo studio e alla riflessione. In Spagna i ristoranti sono vuoti, non si va a cena prima della mezzanotte. Ma forse anche lì la siesta pomeridiana si è persa nella notte dei tempi. A Roma, negli anni ’60 e ’70, si andava a casa per pranzo e si riprendeva dopo le quattro. Io, che venivo da Milano, rimanevo da solo a lavorare in una Via delle Botteghe oscure deserta. Poi mi rispostai a Milano, facevo tardi la notte per partecipare alle riunioni nelle sezioni. Nella provincia di Milano ce n’erano quasi quattrocento, almeno una anche nel più remoto Comune. In due anni le girai quasi tutte, guidando nel buio e nella nebbia. Poi si finiva a bere qualcosa con i compagni.
La mia prima moglie, che era una ragazza romana, allegra e solare, non sopportava quella vita. Le venivano attacchi di asma. Tornò a Roma. Rimasi male quando a un congresso del Pci mi fecero delegare da un paesino del lodigiano che si chiamava Corno Giovine. Lo vissi come un’intollerabile allusione alla mia vita privata. Continuai a fare le ore piccole anche quando passai a lavorare al giornale. Ho sempre lavorato e scritto di notte: nessuno ti disturba. Ma il ciclo circadiano prima o poi si vendica. Da qualche anno non ce la faccio più: mi assopisco. Forse a causa delle apnee notturne. O forse perché faccio zapping tra i talk show.
Le notti d’Oriente sono profumate, sensuali. Anche in Europa la notte ha un suo fascino. È il momento in cui ci si racconta storie accanto al fuoco. Ma solo da quelle parti si potevano inventare Le mille e una notte. A Istanbul e nelle altre città del Medio oriente è stato inventato il caffè come luogo di ritrovo. In Cina l’equivalente era la casa da tè. Indimenticabile quella in cui mi portarono quando trascorsi diverse settimane nelle campagne profonde. Ci si arrivava con un’oretta di cammino nell’oscurità per sentieri e lungo i canali. Alle cinque del mattino, prima che iniziasse il lavoro nei campi, era tutto un brusìo di ambulanti, sensali, chiacchiere, scambi di notizie. Anche in Occidente a un certo punto è stata riconosciuta l’esigenza di un luogo di svago, di stacco dal lavoro. Ma nelle taverne e nei pub o cabaret dell’Europa pre-moderna non venivano ammessi servi, garzoni e apprendisti. Vigeva il coprifuoco per i più giovani. Poi qualcuno si accorse che sullo svago, quel che gli anglosassoni chiamano leisure-time, tempo libero, ci si poteva anche guadagnare.
Mi è capitato ultimamente di andare spesso a Bristol, dove mi è nata una nipotina. I quartieri bene, con le ville, sono in alto, a Clifton, a strapiombo sull’Avon. Dalla parte opposta, in discesa verso il porto, sorgono i quartieri di casette che vennero costruite per gli operai e i minatori. I padroni di casa erano sempre anche i padroni delle miniere. In mezzo alle casette c’è sempre – succede anche a Londra – un edificio più grande e più ampio, dove ha sede il pub. Invenzione geniale. I padroni recuperavano, vendendo la birra e lo svago, una buona parte dei salari.
In realtà c’è qualcosa che accomuna le notti in tutto il mondo. La notte concentra tutti i terrori, tutti gli orrori, e, insieme, tutti i piaceri. La notte era buia prima che arrivasse l’illuminazione artificiale. Lumi a olio, lampade e lanterne servivano più a farsi riconoscere dal prossimo che ad illuminare il percorso. Andreuccio da Perugia, il mercante protagonista della novella del Decameron di Boccaccio, al buio casca nella latrina. È per evitare inconvenienti del genere che si usava (lo facevano già gli antichi romani, tanto c’erano gli schiavi a svuotarlo) il “vaso da notte”. Il mestiere di portar via quel che in inglese ci chiama night soil, “sozzura di notte”, era ancora in voga nella mia Cina degli anni ’80. Nella Cina antica le lanterne, oltre a far strada, erano cariche di significati simbolici. Le lanterne, schermate da carta di riso, erano uno dei luoghi deputati a vergare rebus e indovinelli. Le candele illuminano le notti, l’oscurità dominante nei dipinti di Caravaggio e dei suoi allievi. Alcuni, come il nordico Gerrit van Honthorst – Gherardo delle Notti, il nome d’arte – riescono forse addirittura a superare il maestro nel gioco della luce di candela. L’illuminazione serve anche a leggere e studiare. Innumerevoli San Girolamo e profeti biblici studiano a lume di candela. Ma la storia più divertente sullo studio notturno l’ho letta forse in Cina. Un discendente di Confucio passa le notti nella biblioteca in casa del suo antenato, a Qufu. Sta per cedere alla stanchezza. Compare a incoraggiarlo un fantasma, una donna bellissima. Che gli prepara, strofinando la tavoletta sull’apposita lastra di basalto, l’inchiostro in cui intingere il pennello.
La notte è anche il tempo degli spettri, delle streghe, e dei loro sabba. E dei vampiri. I quali temono la luce del giorno. Anche se il Dracula di Bram Stoker non ha problemi ad andare in giro anche di giorno, anzi nel film del 1992 in cui è impersonato da Gary Oldman indossa spettacolari occhiali da sole. I demoni sono in genere apparizioni notturne. Ma uno dei suoi primi eruditissimi saggi Roger Caillois l’aveva dedicato ai demons du midi, i demoni di mezzogiorno della tradizione classica. Gli spettri occidentali in genere non sono simpatici come quelli cinesi. “Ben l’hanno definita i poeti: madre della disperazione, nutrice delle preoccupazioni, figlia dell’inferno” scrive l’elisabettiano Thomas Nashe nel suo opuscolo del 1564 intitolato, guarda un po’, Terrori della notte. Pare che da lì abbia preso ispirazione Shakespeare per il suo Macbeth. È il momento della cospirazione, degli esorcismi. Nell’Enrico VI i nobili evocano gli spettri in appoggio alla loro congiura (in Shakespeare sono sempre i potenti i cospiratori, il popolo è sempre ingannato e manovrato). La duchessa di Gloucester è impaziente: “In queste cose, prima si fa meglio è”, dice. Le risponde Bolingbroke, il duca di Lancaster: “Pazienza buona signora – i maghi sanno qual è il momento giusto per agire. La notte fonda, la notte buia, il silenzio della notte, l’ora notturna in cui Troia fu incendiata, l’ora in cui alzano il grido stridulo le civette e ululano i cani, vagano gli spiriti e i fantasmi escono dalle tombe…” (Enrico VI parte II, atto I, scena 4, versi 15-22). Ma la notte di Shakespeare, specie quella di Un sogno di mezza estate, è piena, come i boschi della sua Inghilterra, anche di divertenti folletti, elfi, fate.
Prima c’era il buio. Poi arriva la luce. Nella poesia che dà il titolo alla raccolta che Jorge Luis Borges ha pubblicato col titolo Storia della notte, la notte è una costruzione degli uomini. “Lungo il corso delle generazioni / gli uomini eressero la notte. / In principio era sonno e cecità e spine che trafiggono il piede nudo / […] Adesso la sentiamo inesauribile / come un antico vino / […] E pensare che non esisterebbe / senza quegli strumenti tenuti, gli occhi”. Prima l’oscurità del medioevo. Poi l’alba del progresso, infine il Secolo dei lumi. Questa la narrazione che ci hanno sempre propinato. Nella quarta parte del Giorno dell’illuminista Parini il confronto è tra gli orrori della notte medievale e quella sfavillante del suo “giovin signore”. “Tutto davanti a lor tutto s’irradia/ di nuova luce. Le inimiche tenebre / fuggono riversate; e l’ali spandono / sopra i covili, ove le fere e gli uomini / da la fatica condannati dormono. / Stupefatta la Notte intorno vedesi / riverberar più che dinanzi al sole / auree cornici, e di cristalli e spegli / pareti adorne, e vesti varie, e bianchi / omeri e braccia, e pupillette mobili, / e tabacchiere preziose, e fulgide / fibbie ed anella e mille cose e mille.”
Era dei Lumi la chiamavano. Intanto illuminavano i palazzi. Poi venne la rivoluzione, l’illuminazione a gas, e infine la luce elettrica. Thomas Edison, intervistato dal Berliner tageblatt, per l’edizione del 29 novembre 1911 fa pubblicità alla sua invenzione. “La vita notturna è progresso. Vita notturna e stupidità fanno a pugni. La vita notturna accresce le capacità mentali. Illuminazione elettrica vuol dire vita notturna. Berlino diverrà la città più progressista di tutta Europa”. Ricordo le discussioni interminabili tra mio padre e a un mio zio che negli anni ’50 andava per lavoro a Berlino Est ed era impressionato dal fatto che tutto fosse spento, mentre Berlino ovest sfavillava di luci e benessere.
Illuminate sono le feste di corte nella reggia del re Sole e nel palazzo del sultano a Istanbul, nei palazzi imperiali in Cina. Il buio è per i poveracci. Mentre per i signori è come se fosse sempre giorno. Loro non devono risparmiare sulla luce. E neanche sul riscaldamento. Non gli importa che la guerra in Ucraina abbia fatto saltare i gasdotti dalla Russia e abbia lanciato il prezzo degli idrocarburi alle stelle. La Cina ha doppiato gli Stati Uniti in quanto consumatore di energia. Ma ogni americano continua a consumare tre volte più energia di ciascun cinese, il doppio di ogni europeo. Ho vissuto nella Cina ancora buia. Ma tutto è relativo. Quando venne a visitarmi il collega che viveva nella Mosca di Brežnev esclamò che in confronto Pechino gli sembrava La ville lumière.
Splendore, luce, quindi piena attività in contrasto alla sonnolenza fanno da sempre parte della propaganda del potere. “Per potermi occupare dello cose dello Stato non dormo più di quattro ore a notte”, si vantava Koca Sinan Pascià, il gran visir ottomano di origine albanese. Le finestre del Cremlino in corrispondenza dello studio di Stalin erano costantemente accese. Così come le finestre di Palazzo Venezia quando ci stava Mussolini. Animale notturno era Mao. Alcuni visitatori stranieri li riceveva dopo la mezzanotte. I dittatori lavorano sempre di notte. Per il bene dei loro sudditi, beninteso. E ci tengono a farlo sapere. È un po’ che non faccio caso alle finestre di Palazzo Chigi.
“Stelle, nascondete i vostri fuochi, la luce non penetri nel buio dei miei segreti desideri, dice tra sé e sé Macbeth che si appresta al tradimento e delitto” (Macbeth I, 4, 50)”. La condizione normale dell’universo è il buio, la notte cosmica. Miliardi di miliardi di stelle non sono in grado di illuminarla. Ci appaiono come puntini su uno sfondo tutto nero. Il perché è un enigma scientifico. Col quale gli astronomi continuano a cimentarsi. Edgar Allan Poe immaginava uno sfondo luminoso, ma talmente distante che la luce non ha potuto ancora raggiungerci. Comporterebbe l’esistenza di 10 miliardi di miliardi di stelle invisibili per ognuna di quelle che riusciamo a vedere o percepire. L’ipotesi alternativa è che ci sia un aldilà buio, oltre al quale si estendono infiniti altri universi. L’alternarsi di giorno e notte, di luce solare che si riflette sul nostro pianeta rotante, è invece un fatto assodato.
Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 11 marzo 2023.