La cultura e la società italiana hanno compiuto nel 1981 un enorme passo avanti lungo il faticoso percorso della spettacolarizzazione di eventi tragici, quando per una serie interminabile di ore tutti rimasero incollati alla televisione per seguire i tentativi di salvataggio e la tragica fine di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo dalle parti di Frascati. Erano gli anni in cui – come canterà Toto Cutugno a Sanremo due anni dopo – avevamo un partigiano come presidente e la foto di Pertini, che assiste nel buio della notte agli affannosi tentativi di arrivare in fondo a quel pozzo troppo stretto, credo sia rimasta indelebile nella memoria di molti italiani, accanto a quella di Alfredino.
Anche allora ci furono molte discussioni sull’invadenza dei mezzi di comunicazione, sulla tragedia ridotta a spettacolo, sul presenzialismo di autorità e giornalisti, e nei giorni scorsi siamo tornati alle stesse discussioni a proposito del terremoto di Amatrice: domande inutili, esercitazioni retoriche, gusto del macabro, racconti strazianti.
Il vero tributo cui non ci si può sottrarre, in occasione di episodi tragici di questa portata, è rappresentato non tanto dalla forse eccessiva presenza dei media, quanto dalle inconcludenti discussioni sulla eccessiva presenza dei media.
Quando non esistevano i giornalisti, c’era altro, ad esempio le donne che si assumevano il compito di piangere e urlare il dolore per la morte di qualcuno che potevano anche non conoscere affatto. Spettacolarizzazione. E probabilmente il massimo della spettacolarizzazione consisteva nell’interpretare le grandi calamità naturali addirittura come intervento – indubbiamente teatrale – di Dio per punire gli uomini.
Il 7 ottobre 1639 lo stesso territorio di Amatrice fu colpito da un terremoto che fece centinaia di vittime e un cronista dell’epoca non ebbe esitazioni, nella propria relazione sull’argomento, a individuare in Dio il regista del terribile spettacolo che dovrebbe servire come castigo e come monito:
Si moverà a lacrimare, e à temere in uno istesso tempo ciascheduno, che leggerà la presente Relazione, posciache pare che IDDIO, adirato degnamente contro i peccatori poco, o nulla curanti le sue divine Instituzioni, dopo havergli in vari modi ammoniti à rivedersi degli enormi peccati, coi quali continuamente l’offendono, inaspettatamente gli punisca con tremendo e rigoroso castigo, onde si renda vano il loro pentimento, il riconoscere i loro errori, ed il chieder misericordia, non essendo più a tempo.
E d’altra parte sono passati pochi anni dal terremoto del Giappone del 2011 quando un alto responsabile del Centro Nazionale delle Ricerche ne diede una interpretazione simile in una intervista trasmessa da Radio Maria.
Meglio i servizi giornalistici che continuano a chiedersi se davvero i terremoti non siano prevedibili, meglio i racconti strazianti che pure fanno parte della vicenda umana, meglio le interviste un po’ crudeli ai sopravvissuti. Meglio soprattutto la Protezione Civile che grande impulso ebbe dalla tragedia di Alfredino e i sei o sette milioni di euro raccolti, a colpi di due euro alla volta, grazie all’invio di sms stimolato probabilmente anche dalla spettacolarizzazione.
Se in momenti gravi come quello di questi giorni si percepisce qualcosa di quel complicato concetto che si definisce identità nazionale, allora è bellissimo sentire che, nell’omelia del vescovo di Ascoli Piceno al funerale delle vittime, non compare alcun riferimento alle punizioni divine ma viene citata una pagina di Guareschi in cui don Camillo parla ai suoi parrocchiani dopo l’alluvione del polesine.