“Chi tocca Taksim muore!”. Così, secondo quanto riportato dalla stampa, diceva giorni fa un ragazzo turco difronte alle reiterate, arroganti e irritanti minacce di Erdoğan. Non si può sfidare Taksim pensando di non incontrare resistenza nella coscienza collettiva della città e del Paese, come se davvero si trattasse di disperdere con i gas un manipolo di vandali e null’altro. Non si può non da ultimo perché Taksim non è una piazza qualsiasi per Istanbul e per la Turchia; dagli anni Trenta del Novecento, da quando la neonata Repubblica iniziò a progettarlo come spazio organico al processo di nation-building, Taksim è diventata uno spazio simbolicamente sacro e contestato, come spesso accade agli spazi sacri. Su quel suolo, a tutt’oggi uno dei centri simbolici della città, si sono consumati nei decenni post-repubblicani i bracci di ferro più tesi tra la Turchia secolare e kemalista, da un lato, e quella islamica, dall’altra. Il progetto di costruire una moschea a Taksim era il cavallo di battaglia di Necmettin Erbakan, primo ministro islamico tra il 1996 e il 1997, provocatorio cavallo di Troia per rovesciare dall’interno l’identità kemalista; il progetto di costruire una moschea a Taksim viene ripreso ogni qual volta si intende blandire l’elettorato islamico, mostrare i muscoli e strizzare un rassicurante occhiolino alla componente più religiosamente ripiegata del paese. D’altro canto, Taksim è il luogo che ospita il Centro Culturale intitolato ad Atatürk, un tempio dedicato alla sacralizzazione di un raffinato stile di vita occidentale, in cui ascoltare musica classica e godere del piacere dell’opera. Non a caso, anche il Centro Culturale Atatürk è periodicamente oggetto di polemiche, progetti di demolizione, ricostruzione, trasformazione, volti ora a farne un mega-parcheggio, ora un centro di musica arabesque. Da ultimo, per così dire, è anche il luogo che ospita il monumento di Pietro Canonica ad Atatürk stesso. A partire dalla sua consacrazione a simbolo dell’identità secolare, atatürkista e kemalista della Turchia, Piazza Taksim è diventata il luogo in cui masse oceaniche si radunano per manifestare contro i percepiti rischi di islamizzazione del Paese, come nel 2007 in occasione della festa della Repubblica, ma anche là dove sfidare quella identità. Insomma, chi tocca Taksim certamente sa di rischiare non poco.
Uno degli aspetti più interessanti della protesta di questi giorni riguarda proprio la trasformazione e l’uso simbolico dello spazio di Taksim. È certamente presto per dirlo, ma forse assistiamo allo stato nascente di un significato almeno in parte diverso di quella piazza, ad una effervescenza collettiva da cui potrebbe prendere forma una Taksim simbolo di una Turchia meno polarizzata lungo il divide secolarismo/islamismo, di cui Taksim stessa è stata il principale palcoscenico nei decenni passati. La chiamano freetown in questi giorni: Taksim si è trasformata in uno spazio di sperimentazione di nuove forme di socialità. Tra bancarelle di libri messi a disposizione da piccoli editori, bivacchi e musica, danze curde e bandiere con Atatürk, lo spazio di Taksim e il parco Gezi la settimana scorsa hanno visto la messa in scena di alcune insolite liturgie. Mercoledì 5 ricorreva la celebrazione di Miraç Kandili, altrimenti nota come Lailat al–Mi’raj, la notte del viaggio del Profeta da la Mecca a Gerusalemme. In piazza, in quella piazza, membri del gruppo ‘Musulmani anti-capitalisti’ hanno dato vita alla lettura del Corano, e nella notte è stato vietato l’uso di alcolici. Il particolare, però, è che il divieto di bere alcool non è venuto dai Musulmani anti-capitalisti, ma è viaggiato – in forma di regolamentazione auto-imposta – sui social-network per iniziativa di singoli e di gruppi secolari, laici, di sinistra, nazionalisti, insomma di tutta la composita galassia che abita Taksim in questi giorni. Dai social net-work è partito l’invito ad approntare tavoli che distribuissero il kandil simidi, un simit preparato in occasione dei giorni di festività religiosa, per rendere la piazza aperta a chi volesse celebrare la ricorrenza trovandovi sapori e colori della festa, e il tipo di ambiente complessivamente ad essa confacente. Ma non è tutto: due giorni dopo c’è stata la prima preghiera del venerdì dall’inizio della protesta, e di nuovo a Taksim e al parco Gezi è andata in scena una curiosa preghiera collettiva, durante la quale i fedeli sono stati protetti da gruppi di cittadini e membri di associazioni di sinistra, per evitare il rischio di provocazioni da parte di gruppi di estremisti e/o violenti, che la piazza sta cercando in questi giorni di isolare ed estromettere. Qualcosa di non facilmente immaginabile fino a pochi giorni fa. Una rondine non fa primavera, ma oggi si direbbe che Taksim non è più rivendicata da nessuno come proprietà esclusiva, non è più lo spazio di un’identità contro un’altra (se non quelle che lo stesso Erdoğan cerca di contrapporre, dando prova di non voler ascoltare gli appelli al buon senso che vengono dal Presidente Gül, da settori del suo governo, dall’influentissimo movimento di Fethullah Gülen e dall’intelligentsia liberal-democratica un tempo alleata).
A dire il vero, neanche questo è del tutto esatto. Quel che interessa il sociologo in questi giorni, è il processo di ridefinizione di un centro simbolico che sta attraversando Taksim. Le identità presuppongono sempre confini, un dentro e un fuori, e quello che sta accadendo, forse, è la trasformazione della linea di confine che separa il dentro dal fuori. Taksim, forse, prova a diventare il centro simbolico di un’identità in cui il confine che separa non è dato dal divide religioso/secolare, ma da quello democrazia/autoritarismo. La protesta nasce, da un lato, come rivolta contro una pianificazione urbanistica che da un decennio violenta la città in nome del dio profitto, in sfregio a qualsiasi identità della città, ottomana come secolare; dall’altra, nasce come rivolta contro una pianificazione imposta alla città in assenza di qualsiasi forma di consultazione democratica con la popolazione, con la sola forza dell’autoritarismo politico solidale agli interessi capitalistici. La protesta contro lo stupro di Istanbul che i grandi quartieri di edilizia popolare rappresentano è propria ormai da anni tanto di un Alì Bulaç – sociologo e intellettuale, voce di spicco degli intellettuali post-islamici – quanto della sinistra marxista, e funziona da terreno comune da cui è stato facile muovere per allargare la protesta al di là della questione legata al parco Gezi. Il matrimonio tra autoritarismo politico di Erdoğan e interessi capitalistici è infatti alla base dello scontento di molti non solo nel fronte secolare, ma oramai anche in quello religioso, soprattutto tra quei trentenni vicini all’ambiente culturale e politico del partito al governo, che la critica dell’AKP all’autoritarismo kemalista, la retorica della democratizzazione, le hanno prese sul serio, e oggi le rivoltano contro lo stesso AKP.
Una rondine non fa primavera, ed è presto per dire se Taksim stia diventando il simbolo di una Turchia che rifiuta semplicemente qualsivoglia forma di autoritarismo, kemalista come islamico, e che della coabitazione pacifica e solidale tra religiosi e secolari fa la cartina di tornasole di un radicalismo democratico che pretende il rispetto di ogni differenza, senza che queste siano sciolte né dai gas della polizia di Erdoğan né da politiche assimilazioniste kemaliste. Però forse ce n’è abbastanza sotto i nostri occhi per dire che le letture, che sulla nostra stampa continuano a circolare, in termini di contrapposizione tra Turchia secolare e laica sono forse quanto meno incaute, quando non accecate a loro volta da riflessi condizionati ideologici. Ce lo spiega bene Nilufer Göle, al solito lucida lettrice dei fatti, in un articolo di questi giorni: in corso, in una piazza quanto mai composita, non è né un’altra primavera araba, né un maggio ’68, né un ‘Occupy’ in salsa turca. La protesta di Taksim, che è la protesta di molte altre città senza che però si possa negare a Istanbul un ruolo particolare e una propria differenza, è un po’ di tutti questi movimenti, ma a nessuno è del tutto assimilabile: è, né più né meno, che la sperimentazione di una nuova forma di cittadinanza. Se primavera sarà, sarà la primavera della ‘terza anima della Turchia’ (come ha scritto in un pezzo di rara puntualità Carlo Frappi su Left), di una Turchia che rifiuta le contrapposizioni nette e i bipolarismi ideologici, e che ritaglia i confini della sua coscienza collettiva intorno alla linea che separa, oppone e interdice ogni forma di autoritarismo anti-democratico. Non si tratta di una mistica della piazza, di cantarne un peana ingenuo. Che la piazza sia composita, che violenti e gruppi dal DNA tutt’altro che democratico siano al suo interno non è né nascondibile né da tacere. Ma se i dati raccolti da interviste condotte dalla Bilgi University in questi giorni dicono qualcosa – l’80% dei manifestanti seppur critico nei confronti delle interferenze delle politiche di Erdoğan negli stili di vita individuali non pensa che la vecchia soluzione nazionale del colpo di stato militare sia auspicabile, e anzi ad essa si oppone con eguale forza –, è che la cultura politica della ‘piazza’ è in questi anni vertiginosamente cresciuta, ironicamente grazie al governo AKP, vittima oggi di se stesso. Una rondine non fa primavera, ed è bene aspettare ed essere prudenti, ma a fronte di un sistema politico e di una sinistra politica inesistente se non nella forma di un partito repubblicano (CHP) che si limita a idolatrare il passato kemalista, la ‘piazza’ dimostra, tra mille sfumature, di essere ben più matura e solida del sistema politico stesso, e in assenza di rappresentanza non cerca facili tutele, né nelle forze armate né nel paternalismo erdoğaniano.