È giusto il messaggio che il Capo del Governo lancia al Paese con una finanziaria che diventa, anche, strumento di marketing o, come direbbe più precisamente un economista, di creazione di aspettative? Sono sostenibili le speranze che alimenta? Possono diventare “profezie in grado di auto avverarsi” dando ulteriore spinta ad un Paese che ancora deve arrivare aldilà del guado di una crisi durata vent’anni?
Personalmente, ritengo che faccia bene il Presidente del Consiglio ad alimentare la fiducia perché è solo la fiducia che, in questo momento, ci sta facendo crescere (poco), proprio mentre il resto del mondo sta frenando; dopo anni nei quali l’Italia era ferma e le locomotive dei Paesi emergenti sfrecciavano via senza degnarci neppure di uno sguardo.
E, tuttavia, la fiducia deve essere non generica, ma fiducia nella capacità di farcela. Di proseguire in un progetto di cambiamento che è appena cominciato e che mette in discussione tutti.
In questo senso, ci vorrebbe, forse, in questo momento, ancora più coraggio. Soprattutto in termini di riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, da una parte, di taglio e semplificazione delle tasse, dall’altra. Su queste due battaglie non è possibile – neppure per un istante – far passare l’idea che è sufficiente la teoria dei piccoli aggiustamenti dei Governi che si sono succeduti in questi anni di crisi. Piccoli aggiustamenti per evitare grandi danni di consenso che, pure, regolarmente, ci sono stati visto che tutti quei Governi hanno, poi, perso, negli ultimi vent’anni, le elezioni.
Vale la pena scegliere, allora, definitivamente il coraggio. Ed anzi l’idea potrebbe essere quella di collegare le due trasformazioni: tutto quello che risparmio in spese ridondanti che stanno uccidendo l’amministrazione pubblica, diventano riduzione (e semplificazione) delle tasse che schiacciano gli imprenditori più innovativi.
C’è un salto impressionante – in termini di chiarezza – tra le trentadue tavole che il Presidente del Consiglio ha proiettato per raccontare i termini fondamentali della legge di stabilità e le centodue pagine – piene di correzioni, punti sospensivi per integrazioni successive e rimandi – dello “schema” che gli uffici del Ministero dell’Economia hanno prodotto cercando di stare dietro al nostro vulcanico Premier. In alcuni casi, emergono anche alcune, non piccole significative differenze nei numeri che vengono proposti e, complessivamente, la legge appare essere, ancora, in movimento.
E, tuttavia, visto che fa bene il Capo del Governo a parlare per suggestioni più che per numeri (quelli dell’economia che è una “scienza triste” o quelli dei bilanci pubblici che sono ancora più noiosi), è sul filo delle suggestioni che può essere forse sviluppato un ragionamento sulla Finanziaria. Anche se un giorno dovremmo anche riflettere se ha senso intervenire sulla finanza pubblica attraverso una “legge” che ha, per definizione, una rigidità che rischia di spezzare – sul nascere – molte delle innovazioni che stanno per travolgere anche il funzionamento dello Stato.
Va bene tagliare la spesa pubblica. Ma non basta continuare ad accanirsi sulle componenti più piccole della torta – le province e gli acquisiti di beni e servizi che pesano il 10% del totale – lasciando, del tutto, ferme le voci più grosse – il personale, le pensioni per le quali si prospetta anche qualche ritirata – che sono anche quelle che hanno il potenziale per cambiare la cultura, gli atteggiamenti mentali, il carattere di questo Paese.
Non può essere sufficiente a chi ha forti ambizioni riformiste, il blocco del turn over. A partire da quello che congelerebbe i dirigenti pubblici. Perché ciò rischia di produrre l’effetto indesiderato di blindare ulteriormente nelle mani di chi ha fallito, la responsabilità dell’implementazione di politiche di fondamentale importanza. Laddove, invece, bisogna sfidare i sindacati proprio sul loro terreno: ammettendo che c’è bisogno di maggiori risorse per i rinnovi contrattuali, in cambio però di una discussione complessiva su piani di mobilità del personale in eccesso e su una valutazione sistematica che pesi sulle carriere.
Ha (buon) senso concedere flessibilità sulle pensioni. Senza però, neppure per un secondo, far perdere di vista il dato drammatico che dice che non ha futuro un Paese che tuttora spende in pensioni quattro volte più di quello che spende in educazione, dagli asili alle università.
È utile, infine, accentrare ulteriori acquisti di beni e servizi standardizzabili alla centrale d’acquisti dello Stato (CONSIP). Ma sarebbe un errore enorme dimenticarsi che più della “standardizzazione” può fare l’innovazione che, però, ha bisogno di competizione e diversità tra amministrazioni diverse.
Va bene tagliare le tasse. Ma non si capisce, perché dare precedenza a quelle sulla casa che rende plasticamente immobile la società italiana. Legando la riduzione nel 2016 di quelle sulle imprese ad un assai improbabile accettazione da parte delle istituzioni europee di un ulteriore deficit del 0,2% del PIL che dovrebbero concederci come compensazione per l’emergenza migranti. Laddove, la finanziaria dovrebbe essere anche il momento per impegnarsi ad affrontare, anche, la questione della drastica riduzione della complessità del sistema tributario che – secondo la Banca Mondiale – pesa, anche più della sua incidenza sul PIL, sulla scarsa capacità dell’Italia di attrarre o trattenere imprenditori.
È giusto, dunque, ridurre la spesa pubblica e le tasse. Bisogna, anzi, accelerare e guidare con maggiore precisione. E l’idea potrebbe essere quella di legare – in maniera quasi automatica – le due battaglie: tutto ciò che risparmio in spesa pubblica, lo trasformo in riduzione delle tasse. Diminuisco il peso del Leviatano e lo trasformo in ossigeno ad una società che si esprime al meglio se si libera – su un piano culturale, oltre che finanziario – dall’eccessiva dipendenza dalla politica. Un’alleanza di chi vuole restituire autorevolezza alle amministrazioni pubbliche; e chi ha bisogno di poter contare su un rapporto non invasivo dello Stato, per dedicarsi a creare benessere e posti di lavoro: può essere questo il ceto sociale – diverso da quelli sui quali discettano normalmente i politologi – per vincere elezioni che, da vent’anni, perde sempre chi prova a governare l’Italia (e a fare le sue finanziarie).
C’è però bisogno di avere e dare fiducia collettiva ad una trasformazione che diventa – dopo anni di sacrifici subiti – una sfida che ha bisogno del contributo di tanti. Solo così, in un contesto globale senza locomotive, si rende l’Italia – come dice la prima slide del Presidente del Consiglio – “più forte, più semplice, più giusta”. “Orgogliosa” di aver attraversato – cambiando – una crisi che rischiava di ucciderla.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 19 Ottobre