Fatti
Centomila persone, si legge e si sente dire. Piazza San Pietro, non gremita fino a non potersi muovere ma comunque piena, partecipa alla veglia per la pace voluta da Papa Francesco. Partecipa con la preghiera, con la meditazione, con il silenzio. Quando centomila persone, di tante fedi e visioni del mondo, si riuniscono in uno scenario come quello di Piazza San Pietro, dalle luci del tramonto fino a notte, in un momento così drammatico in cui il mondo – colpevolmente in modo tardivo – si trova a dover fare delle scelte sulla tragedia siriana e a calcolare le possibili ripercussioni in Medioriente di quelle scelte, è impossibile che non si generi il senso di un’esperienza condivisa. Un’esperienza ‘unica’, ma con tre facce.
Un’esperienza di intensa spiritualità. Quando centomila persone condividono il silenzio per lunghi minuti, riempiendolo in foro interiore con parole spontanee, invocazioni al loro dio, meditazioni e pensieri sulla pace e sulla guerra, è la dimensione spirituale che viene sollecitata e raffinata. Papa Francesco, nella sua meditazione, è partito da Bereshit e dal posto dell’uomo nel creato, invitando la Piazza e ciascuno a collegare macro e micro-cosmo, a riflettere ciascuno con le proprie parole su quanto fosse ‘cosa buona’ la creazione di un universo in cui l’uomo aveva il suo ruolo in armonia con i suoi simili e con il resto del creato, e su quanto fosse distante da quel caos che è il prodotto della mano levata da Caino contro il fratello. Un ‘quadro’ grande quello tracciato dalle parole di Francesco – la Creazione, il posto dell’uomo al suo interno, il posto di quella Piazza in quel momento in quel quadro. Un quadro di cui chiunque ieri sera poteva essere parte: cristiano, musulmano, ebreo, non credente.
Quando centomila persone condividono le parole di una preghiera, di un canone liturgico, di un vocabolario specifico, condividono una profonda esperienza religiosa. Quando Papa Francesco dice che la sua fede cristiana lo porta a guardare alla Croce come segno non di violenza e morte, ma di pace e speranza, non parla ad ogni comunità religiosa, che nella Croce può vedere ben altro, ma alla sua comunità. E quella comunità alla Croce si aggrappa, offrendola al mondo come segno di pace, guardando al futuro e con buona pace di tante pagine della storia.
Quando centomila persone, per lo più cattoliche ma anche di altre fedi e tradizioni (non credenti inclusi) pregano e meditano insieme, in silenzio o con le parole di una liturgia, in piedi o in ginocchio, e lo fanno per spingere i ‘grandi della terra’ a non aggiungere morte a morte, a perseguire con coerenza e forza altre vie che non siano quelle delle armi per porre fine al massacro del popolo siriano, condividono un’esperienza genuinamente politica. Quando Papa Francesco dice che ‘un’altra via è possibile’ – e la diplomazia vaticana nelle sedi opportune ne articola le condizioni –, e quando invita a riflettere criticamente sulle ragioni sempre più sofisticate con cui siamo arrivati a giustificare la guerra nella storia, compie una scelta politica, di parte, radicale e al tempo stesso estremamente realistica: rifiuta il ricatto morale di chi prima prepara la guerra e poi – in nome dei diritti umani – ricorre alle armi per ‘riportare la pace’; propone l’unica soluzione che non abbia controindicazioni peggiori del male attuale, ossia il realismo della pace contro il cinismo delle cancellerie.
Che esperienza spirituale, religiosa e politica possano darsi insieme è cosa che sorprende eventualmente solo chi ha una visione del tutto parziale della religione, che mai o quasi mai separa in compartimenti la vita. È anche per questo che mi piacerebbe pensare a quella Piazza non come ad un episodio. Ha ragione, purtroppo, chi – davanti al dramma della Siria, al dramma dei bambini siriani in primo luogo – chiede dove siano stati i pacifisti per due anni, dove siamo stati tutti noi (anche se il lavoro dei pacifisti non è mai cessato, ma è mancata la cassa di risonanza mediatica e l’adesione di massa al loro lavoro quotidiano). Non si può sottostare al ricatto morale di chi prepara la guerra per poi invocare le armi per ripristinare il rispetto dei diritti umani, ma non si può tollerare un minuto di più che una rivoluzione per la libertà sia lasciata trasformarsi in una guerra confessionale e geopolitica tra blocchi contrapposti (http://lacittanuova.milano.corriere.it/2013/09/07/la-siria-il-digiuno-e-la-preghiera-dove-sono-stati-i-pacifisti-per-due-anni/). Il pacifismo deve una risposta praticabile ed efficace ad Assad. Ecco perché mi piacerebbe pensare a Piazza San Pietro questa stasera, domani sera, e poi dopodomani, come ad una delle piazze delle primavere arabe, una piazza Tahrir della resistenza alla guerra e alla violenza, in cui trovarsi a pregare, meditare, con le parole di una liturgia o con le proprie, tutti credenti nella pace come valore in sé e come condizione per vivere ciascuno nella propria differenza e in dialogo. Sarebbe, credo, opera grande, come la Creazione.