Non v’è al mondo regista «impegnato» che possa dirsi estraneo all’eredità di Francesco Rosi, che non sia figlio della sua estetica ed emulo del suo coraggio. Laddove l’«impegno» in lui non riserva alcunché dei rigori ideologici del secondo dopoguerra. Anzi, la forza di Rosi – che pure fu sempre di sinistra – è innanzitutto nello stile, nella libertà del racconto, nel linguaggio ibrido che mescola documentario e spettacolo, cronaca e arte, presa diretta e messa in scena. A pochi giorni dalla morte di Pino Daniele, col meticciato anglo-napoletano dei suoi testi e il blues-latino-melodico della musica, viene da pensare che il Sud lascia un segno solo se sperimenta, mescola, azzarda incroci fra dimensioni familiari e voci lontane. Non certo quando si limita a riprodurre le tradizioni.
D’altronde, raccontava Rosi, il suo destino si delineò in una fotografia scattata, sviluppata e colorata a mano dal padre Sebastiano («nome che conteneva la vocazione al martirio»), direttore di un’agenzia marittima e caricaturista nella Napoli anni ’20 del Novecento. Nella foto Francesco ha quattro-cinque anni, porta la coppola ed appare identico al piccolo Jackie Coogan di Il monello di Chaplin. Ed è subito Hollywood, subito cinema.
Rosi è scomparso ieri a Roma all’età di 92 anni. Era vedovo di Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia, che morì nel 2010 nella loro bella casa vicino a Piazza di Spagna per il rogo provocato da una sigaretta, proprio come la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann nel 1973. Lascia una figlia, l’attrice Carolina Rosi, 49 anni.
Il regista napoletano ha sempre coltivato uno sguardo tanto impietoso quanto compassionevole sul mondo, ovvero sui temi cruciali nei suoi film modernissimi per quel ricorrente impasto, si diceva, tra finzione e testimonianza. Basti pensare a due titoli dei primi anni ‘60: Salvatore Giuliano sulle tragiche vicende del banditismo e del separatismo nella Sicilia post-bellica funestata dall’eccidio dei contadini a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, e Le mani sulla città dedicato al sacco edilizio di Napoli, un capolavoro in bianco e nero il cui titolo è una metafora ancora attualissima, purtroppo, nell’Italia di «mafia capitale».
Dieci anni dopo, con Il caso Mattei (1972) sulla morte del presidente dell’ENI in un incidente aereo nel 1962, Rosi vince la Palma d’oro di Cannes ex aequo con un altro esempio del cinema di denuncia civile, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri (entrambe le pellicole sono interpretate da Gian Maria Volonté). Il film di Rosi presagì quanto è affiorato nelle carte processuali decenni più tardi (Mattei fu vittima di un attentato) e, stando a recenti ricerche, nelle sue fasi preliminari sarebbe costato la vita al giornalista Mauro De Mauro, rapito dalla mafia a Palermo, che dal regista era stato incaricato di indagare sulla vicenda.
Rosi, nato a Napoli nel 1922, fu amico di gioventù dello scrittore Raffaele La Capria, dell’attore Aldo Giuffré e del regista Peppino Patroni Griffi, nonché sodale di Giorgio Napolitano (più giovane di tre anni) ai tempi dei comuni studi partenopei in Giurisprudenza e grazie alla passione di entrambi per il teatro. E in teatro, da aiuto-regista di Luchino Viscont, al pari di Franco Zeffirelli, il giovane Rosi assimilò il perfezionismo quasi ossessivo dell’aristocratico Visconti.
Un’essenziale caratteristica della sua filmografia è la passione per il Sud non come luogo comune folcloristico o nostalgia del passato (che invece echeggia in Pasolini). Grazie a Rosi, il cinema non si è fermato a Eboli, ovvero non ha smesso di interrogare il Sud e di interrogarsi lungo il confine «mobile» e arduo tra luce meridiana e ombre della storia, tra le rovine che alludono a un degrado epocale e un futuro incerto. Tutto il cinema «civile» di Rosi guarda verso Sud: da La sfida (“Fronte dell’orto”, lo soprannominarono) e I magliari, a Salvatore Giuliano, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli. E, naturalmente, Le mani sulla città che vinse il Leone d’oro nel 1963, due anni dopo il rifiuto della Mostra a selezionare in concorso Salvatore Giuliano con la motivazione che si trattava di un documentario (si sarebbe poi aggiudicato l’Orso d’argento al Festival di Berlino). Rosi tornò in Laguna da ultimo nel 2012 per ritirare il Leone alla carriera, festeggiato anche da un messaggio affettuoso del presidente Napolitano.
Cinema verso Sud, come sancito dalla cittadinanza onoraria che Matera attribuì a Rosi nel 2013, un viatico per la futura capitale europea della Cultura e un ringraziamento per le sue opere girate in Basilicata, da C’era una volta (1967), favola secentesca con Sophia Loren e Omar Sharif, a Cristo si è fermato ad Eboli dall’omonimo romanzo sul confino di Carlo Levi durante il fascismo (1979, protagonista Volonté), fino al lessico familiare negli «anni di piombo» del terrorismo politico di Tre fratelli (1981), con Philippe Noiret, Michele Placido e Vittorio Mezzogiorno.
Nel bellissimo libro-intervista Io lo chiamo cinematografo, una lunga conversazione fra Rosi e Giuseppe Tornatore (Mondadori, 2012), l’anziano regista ripercorre la sua carriera, i successi, le amicizie, gli amori, i dolori insanabili come la perdita di una figlia – nata dal legame con l’attrice Nora Ricci, ex prima moglie di Vittorio Gassman – in un incidente automobilistico (alla guida c’era Rosi) e la morte assurda dell’amatissima «Giancarlina». Più volte, parlando con Tornatore, il grande autore tesse l’elogio del Mezzogiorno e gli confida un sogno nel cassetto, anzi nell’armadio dei film non fatti (in camera da letto, dove serbava i copioni irrealizzati): «Io chiuso in una masseria a cercare un’idea per raccontare l’Italia di oggi. Fatti, personaggi, opinioni, che riescano a rappresentarla in un film di cui trovare la chiave narrativa. Un giudice, un giornalista, un contadino, un regista…». Dove? «In Lucania».
Questo pezzo è uscito sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 gennaio 2015