Questo 22 novembre esce per Castelvecchi il mio libro “Siria, la fine dei diritti umani”. Ne pubblico qui uno stralcio.
L’informazione si specializza, sempre di più. Questo offre possibilità di conoscenze approfondite, ma non risolve gli inconvenienti che derivano dalla separazione dei fenomeni. Quando dobbiamo capire gli effetti di attori che nascono locali ma determinano reazioni a migliaia di chilometri di distanza, la separazione dei fenomeni può diventare un problema capace di allontanarci e non avvicinarci alla comprensione. Il crollo del muro di Berlino è stato un evento dalla chiara valenza universale, leggerlo solo da germanisti non spiega quel crollo, ma oggi serve soprattutto capire perché negli anni Novanta si pensava portasse al trionfo mondiale della democrazia liberale, mentre una serie di scelte ispirate al liberismo economico lo hanno trasformato nel trionfo del consumismo su scala mondiale ma anche nella disfatta della democrazia liberale. Una globalizzazione governata dalle regole per il mercato delle merci invece che dalle regole per il mercato del lavoro non poteva che ridurre i diritti dei lavori, almeno nel primo mondo, per quanto vada riconosciuto che la “globalizzazione reale” ha ridotto in alcuni colossi orientali l’area della povertà estrema. Molti osservatori hanno esitato a credere che questo potesse determinare una crisi della democrazia liberale, dimenticando quanto breve sia stata la sua epoca, fondata sul modello rappresentativo, partecipativo e sui diritti umani. Per riordinare le nostre priorità, per capire cosa sta succedendo, occorre un approccio diverso, che ci apra gli occhi sulle nuove questioni di fondo. Partiamo dal problema principale dell’oggi, e cioè che siamo tutti parte di una sola umanità. Perché questa elementare evidenza viene riaffermata solo da Papa Francesco, ma negata da tutti gli altri leader mondiali, da Putin a Trump? L’economia si è fatta prioritariamente finanza e delocalizzazione selvaggia nell’epoca delle democrazie liberali, che sono rappresentative e partecipative: questo dato di fatto ha dequalificato la rappresentanza e ridotto la partecipazione mentre si impoverivano i vecchi luoghi di lavoro creando occupazione a basso costo nei nuovi; invece che un circuito virtuoso di crescita dei diritti si è creato un circuito vizioso di decrescita dei salari e dei diritti, pesante soprattutto per i paesi occidentali, i cui vantaggi si sono ridotti. Questa unificazione dei mercati ha facilitato, sempre in epoca di democrazia liberale, l’allargamento della forbice tra i ricchi, sempre più ricchi e meno numerosi, e i poveri, sempre più poveri e più numerosi, ma privati di una cultura. Il consumismo di massa e mondiale ha uniformato i comportamenti e i codici, portandoci a vestire allo stesso modo, usare gli stessi apparecchi telefonici, le stesse suonerie, acquistare gli stessi prodotti negli stessi grandi magazzini, svagarci negli stessi centri commerciali. Così, come notò tra i primi il cardinale Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires, la città globale è entrata nelle città locali, conquistando lo spazio ludico, del divertimento e dello svago, lasciando a quella locale il ruolo di ricettacolo di droga, malavita, miseria, esclusione, rabbia. Questo ha rafforzato il discorso “identitarista”, occultato le disparità sociali, creando una identificazione indotta tra globalizzazione e non-identità. Sono tutte storture che andrebbero seguite una ad una per capire quanto abbiano contribuito ad oscurare il fatto che il mondo post sovietico ha improvvisamente aperto ai colossi asiatici le porte della vivibilità, restando però un letto sul quale la coperta non è più stata riservata ai paesi ex occidentali, ma ha seguitato a lasciare all’addiaccio intere macro regioni, dove vivono sempre meglio solo gli accoliti di tanti tiranni. Un’informazione specializzata aiuterà a capire meglio ogni tratto di questa nuova realtà e indicare alcuni errori in questa carrellata, ma non si deve perdere la capacità di cogliere il prodotto globale, che sembra invocare soprattutto in quello che chiamiamo Occidente e in America Latina il ritorno al mondo precedente. Ma precedente a cosa? Alla globalizzazione? O alla democrazia liberale? Questa domanda non ci pone davanti a un bivio perché sono i gruppi dirigenti delle democrazie liberali che ci hanno condotto sin qui, lasciando che le spinte del malessere venissero coalizzate da chi intendeva indurre gli elettori a scegliere il ritorno al mondo che è esistito prima della democrazia liberale, teorizzando politiche illiberali, nazionaliste, con attenzione all’uso del sacro in senso che un tempo avremmo definito clerico-fascista. Ma con buon pace di certi ambienti curiali, reazionari e clerico-fascisti, riconnettere la politica con il sacro, in una prospettiva reazionaria e illiberale, è possibile solo se si smantella la Chiesa davvero universale emersa dopo l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, cioè la Chiesa conciliare, sostituendola con Chiese etniche, patriottiche, come quella che il Vaticano è riuscito a far abbandonare alla Cina di Xi. Può sembrare un problema da minutanti della segreteria di stato vaticana, invece è la sfida decisiva di questo secolo: la Chiesa universale non può essere nazionalista, identitarista, magari razzista, mentre lo possono essere le Chiese etniche o “patriottiche”, che possono adottare un clerico-fascismo sciovinista. E’ interessante notare che i diritti umani fanno la loro comparsa in un documento pontificio con Giovanni XXIII e la Pacem in Terris. Sin lì i diritti erano di Dio… Ma il clerico-fascismo allora parlava a un mondo “occidentale” di cui il papa, fino alla lungimirante scelta di Benedetto XVI, si definiva “primate”: e quelle aree, l’estremo oriente e l’Africa, oggi imprenscindibili anche come “serbatoi parrocchiali”? E’ uno dei motivi per cui il clerico-fascismo difficilmente potrà tornare universalista, malgrado i segmenti “curiali reazionari” lo sperino, e dovrà probabilmente piegarsi al patriottismo e alla dimensione delle Chiese etniche. L’espressione “clerico-fascismo” è uscita dal nostro vocabolario quotidiano, ma non è qualcosa di preistorico.
I partiti politici che hanno rinnovato l’Europa e il mondo dopo il secondo conflitto mondiale hanno fatto dell’anticonformismo un elemento centrale della loro carta d’identità nel contestare la sacralità reazionaria, quella che sosteneva i regimi dittatoriali con motti quali “Dio, patria, famiglia”: questo anticonformismo era stato un architrave per smantellare la cultura reazionaria sostenuta dal clerico-fascismo. L’apogeo di questo anticonformismo vincente e coerente è stato raggiunto con le grande mobilitazioni per i diritti civili. Ma quando il potere è cambiato e ha posto il suo credo consumista nell’io sovrano accanto, i movimenti progressisti hanno perso contatto con la realtà sociale, rimanendo ancorati alla questione delle libertà individuali, che il nuovo potere non avversava non per condivisione ma perché compatibili con l’ordine consumista e perdendo di vista i problemi sociali. Lo scollamento con ampi settori di tutte le società europee che si sono sentite abbandonate a quell’economia che Papa Francesco ha chiamato con precisione “un’economia che uccide” è stato evidente. Lo stesso, come vedremo più avanti, è accaduto nelle società arabo-islamiche, dove il tradimento della promessa di distribuzione dei dividendi della decolonizzazione da parte delle élite laiche, soprattutto nasseriane e baathiste, ha consegnato i più poveri a gruppi islamisti nati come rivoluzionari e presto divenuti reazionari, in precedenza gruppi marginali. Si deve parlare di reazionari e non di conservatori; a spiegarci perché è uno dei più autorevoli nomi del conservatorismo economico, Friedrich Von Hayek. Per l’ economista austriaco, premio Nobel per l’economia del 1974, i conservatori diventano reazionari perché si oppongono al cambiamento senza badare al fatto se sia positivo o negativo, hanno paura del progresso e del nuovo, mentre il liberalismo si basa sulla fiducia. Per questo Von Hayek asseriva che il conservatorismo porta alla spirito reazionario, avvertendo il fascino dell’autorità, essendo incline a servirsi del potere pur di impedire ogni cambiamento. Questo conservatore divenuto reazionario invoca il protezionismo contro l’internazionalismo, ma spesso gli manca una conoscenza basilare del modo in cui la crescita economica è legata al bisogno di libertà e “alle forze spontanee su cui una politica di libertà fa assegnamento.” La sua conclusione fa impressione riletta oggi: il conservatore divenuto reazionario è senza scrupoli, perché non ha una filosofia politica. Non è questa l’impalcatura che sottosta alla democrazia cristiana illiberale di Orban come, in termini islamici, degli ulema wahhabiti? Così il rischio paventato in precedenza, il riflusso verso un’eresia cristiana capace di produrre Chiese etniche, nazionaliste, fedeli ai Presidenti, o ai Raìss, e non al Vangelo, porta di nuovo a un parallelismo con il patto di potere e per il potere che lega gli ulema wahhabiti e la tribù dei Saud, autoproclamatasi dopo enormi spargimenti di sangue, famiglia reale. Il discorso infatti riguarda tutte le religione universali, non soltanto il cristianesimo. Cosa ha detto Erdogan se non questo, quando, in piena tempesta per la svalutazione della lira turca, ha affermato che “loro hanno i dollari, noi abbiamo Allah”?
Giungere a questo punto è il prodotto di errori e il più importante è stato non capire che quando il vecchio sistema reazionario è stato sconfitto e “il nuovo potere” si è fatto consumista, basato cioè su una produzione enorme, transnazionale, edonista, occorreva rinnovare anche l’anticonformismo. Non avendolo fatto, i liberal e i progressisti, fautori della democrazia liberale, da anticonformisti sono diventati senza accorgersene conformisti davanti a un nuovo potere che nell’epoca della globalizzazione è desacralizzato per altri motivi, per un’altra necessità. Forti della loro rapacità, gli avversari di queste leadership espressioni del sistema liberale hanno cavalcato il mito della lotta ad élite sfruttatrici della miseria altrui, che ha fatto il suo esordio con la lotta putiniana agli oligarchi e poi si è globalizzato con l’attacco alle multinazionali, ai liberali e alla sinistra socialdemocratica, le grandi componenti delle élite, secondo i loro critici dell’estrema destra e dell’estrema sinistra illiberali. Si è così consegnato l’anticonformismo e ciò che esso rappresenta a chi ripropone “Dio, patria, famiglia” quale risposta al disordine odierno. Davanti al potere spersonalizzante del consumismo di massa i liberal avrebbero dovuto aggiornare la loro agenda, respingere i fallimentari modelli del multiculturalismo e dell’assimilazionismo e investire sull’integrazione, sull’interculturalità, ma soprattutto sul vivere insieme, sulla creazione di un’etica globale. Questa prospettiva avrebbe ricollegato il liberalismo e la democrazia liberale al sacro e alla morale in una visione religiosa liberale e moderna, prosciugando i pozzi dell’identitarismo tribale che trasforma i simboli religiosi in clave. Dunque si è persa di vista la necessità di un’alleanza con la Chiesa universale, la sola che può sconfiggere l’eresia delle Chiese etniche che in tutto il mondo serviranno a creare un potere spirituale che offra una base ai neo-nazionalismi rendendoli custodi di un identitarismo primitivo, che ci riporta a una dimensione tribale. Ma non lo si capisce appieno se non si vede che quella “populista” è un’onda che non riguarda solo Europa e Stati Uniti, riguarda anche la cultura islamica, ad esempio, dove i gruppi fondamentalisti invocano o impongono l’esclusione dell’Altro proprio come accade in Europa e negli Stati Uniti. La guerra all’alterità, che oggi viene combattuta apertamente anche con ritorni razzisti, in realtà, come ha spiegato Pier Paolo Pasolini, è cominciata nella Bologna comunista e consumista, dove la nuova cultura borghese, edonista e di massa, eliminò l’alterità operaia. All’epoca non si è colto il genocidio culturale che si profilava, né il razzismo; oggi sì, purtroppo.