Era largamente prevedibile: Ia guerra tra le diverse comunità siriane, sunniti e alawiti in primis, si sta allargando ai paesi confinanti.
Il coinvolgimento del Libano e di Israele è il segnale più preoccupante. In Libano lo scontro tra sunniti e sciiti, già esploso in passato, si riaccende per via dell’allineamento attivo di Hezbollah a fianco del regime di Assad. In Israele cresce la tentazione di aiutare l’opposizione armata al regime di Damasco sperando di accelerare la sua fine. Tel Aviv, probabilmente, preferirebbe un intervento armato occidentale ma prende atto della reticenza americana (Obama non vuole ripetere la fallimentare esperienza irachena) e quindi cerca di influire sullo sviluppo degli avvenimenti con il pretesto di fermare il rifornimento di armi dalla Siria agli Hezbollah. I quali operano ormai apertamente in territorio siriano a fianco delle truppe di Assad. Il che a sua volta alimenta la tentazione israeliana di intervenire a fianco degli insorti per accelerare la caduta del despota siriano.
Il conflitto è dunque ormai internazionale, sempre più condizionato dalle strategie delle sub potenze musulmane regionali: l’Iran che aiuta Assad e gli Hezbollah, l’Arabia saudita che arma e finanzia I ribelli sunniti. Il mondo musulmano è sempre più lacerato dallo scontro tra sunniti e sciiti. Lo dimostra la situazione irachena: i sunniti sono in aperta rivolta contro il governo a maggioranza sciita. E’ la conseguenza della guerra di Bush contro Saddam Hussein, grazie alla quale la maggioranza sciita irachena è riuscita a prendere il potere e ora non intende mollarlo.
A questo punto il conflitto israeliano-palestinese sembra perdere peso di fronte a quello tra le due principali sette religiose del mondo musulmano. E l’occidente non sa cosa fare, consapevole che qualsiasi intervento rischia di produrre altre fratture.
Resta un’esile speranza: che le grandi potenze, Stati Uniti e Russia in primo luogo, trovino un punto d’incontro per fermare il fiume di sangue che scorre in Siria da ormai due anni. Il che vorrebbe dire lavorare per assetti politici e territoriali che in qualche modo pongano fine a un conflitto che ricorda sempre di più la guerra tra cattolici e protestanti che dilaniò l’Europa nel Cinquecento e nel Seicento.