Con l’intervento di Emanuele Severino il dibattito su Il senso del Nuovo Realismo ha segnato una svolta fondamentale (“La Lettura”, supplemento del “Corriere della sera”, domenica 16 settembre 2012, pp. 34-35). Se si ripercorre l’elenco di articoli, saggi, interventi di ogni tipo, che da un anno a questa parte si sono sviluppati sul tema, due elementi fanno davvero impressione: la mole enorme, direi smisurata, dell’elenco stesso; il fatto che, nonostante ciò, raramente, anzi quasi mai, viene toccato quel “nucleo filosofico essenziale” a cui fa riferimento Severino. Se ne deduca ciò che si vuole, ma in prima istanza non si può non rimanere amareggiati e delusi per quello che è forse un segno di decadenza della filosofia. Severino però ha rimesso le cose al loro posto. E da oggi, chi vuole affrontare seriamente la questione, non può prescindere dal suo contributo (che è qualcosa di più di un articolo di giornale e poco meno di un saggio scientifico).
Detto in soldoni, Severino dimostra come, se si prende sul serio la “svolta trascendentale” del pensiero occidentale, una posizione di “realismo ingenuo” quale quella di Ferraris non sia assolutamente più concepibile. “Certo, la difficoltà maggiore è capire -egli esplicita- il carattere ‘trascendentale’ del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco al neohegelismo di Gentile”. Ora, potrà sembrare stupido e presuntuoso, e probabilmente lo è da parte mia, ma io vado contestando in varie sedi a Ferraris, almeno da tre anni (diciamo dall’uscita di Documentalità, nel 2009, ad oggi) proprio quello che gli ha contestato oggi Severino. Senza soddisfazione, però: nel rispondere alle mie obiezioni Ferraris cambia sempre argomento. Non potendo ammettere che egli non arrivi al punto della questione, né assolutamente che sia in malafede, ne ho dedotto che il suo è un sacrificium intellectus, un atto di fede nell’esistenza di una realtà esterna irrelata, e non un atto di pensiero. Tanto che, per non continuare un dialogo fra sordi, ho deciso di non rispondere alla sua ultima provocazione pubblicata sulle pagine della rivista che ospita questo blog. Devo però ammettere che Ferraris, che è pur sempre un amico, ha dimostrato molta liberalità ospitando nell’ultimo numero della sua “Rivista di Estetica” (il 50/2012, anno LII, intitolato A partire da Documentalità) un mio saggio di impegno che, per impostazione e persino riferimenti puntuali, è impressionantemente simile a quello, al contrario del mio magistrale, pubblicato oggi da Severino. Quando l’ho scritto, più di due anni fa, lo avevo intitolato: Il recupero del “principio di realtà” come “realtà storica”. Integrazione dell’idealismo e dello storicismo nella Teoria della Documentalità. Oggi, soprattutto in considerazione degli sviluppi ulteriori che la teoria della Documentalità ha avuto con l’elaborazione della prospettiva del Nuovo Realismo, direi che una “integrazione” è praticamente impossibile: ci troviamo di fronte a due modi di pensare antitetici, di cui uno solo, quello trascendentale, può dirsi, a mio avviso, come spiegherò in un post successivo, propriamente filosofico. La domanda da farsi è allora questa: la domanda: la risposta di Ferraris a Severino sarà all’altezza della riconquistata dimensione filosofica della questione?
La questione Emanuele Severino
Prestare soccorso ad Emanuele Severino, al forse più grande pensatore che l’uomo abbia mai sfornato, è come tentare di arrestare la pioggia raccogliendo qualche goccia che scende dal cielo, e tuttavia deve avere luogo e per evitare chi in tal senso predisposto di perdersi nell’immensa distesa su cui il filosofo italiano estende il suo pensiero e quello che si sa poggiante sul suo simile ugualmente costituito.
E che va raccolto come l’espressione che deve, per esserla, avvalersi della medesima premessa e circostanza, e la prima l’ossigeno e la seconda il cibo, e quindi quella necessità che Emanuele Severino deve indicare con cautela e per evitare quella reazione del suo simile che sa ferma difesa della madre come radice della violenza a cui spesso si è riferito e attraverso le sue variegate espressioni sulla Terra.
E in primo luogo le lingue variegate con cui l’uomo si distingue dal suo simile, e quindi come la diversa costituzione benché, dicevamo, debba pertanto avvalersi della medesima premessa e circostanza, come allora la fede che verte su di sé e indicando in uguale maniera l’altra la sua imitazione e appunto con sue parole intonate altrimenti e che celano l’aspetto inaudito della violenza e il riparo dalla morte.
E la grandiosità di Emanuele Severino risiede proprio nel fare intravedere uno solo il modello relazionale al quale l’uomo si è sottoposto e come suo fermo rifiuto della morte anche se tuttora, e cioè come prima del subentro delle sue parole nell’allora sua quotidianità, costretto ad applicarsi come fermo destino e nel senso che rimane costretto a corrispondere la realtà come l’animale nella procura del cibo.
Sicché, per abbreviare il discorso di Emanuele Severino, la madre è Dio al cospetto dell’uomo e come da egli appresa sua ferma sensazione di tutela e quella come dimostrata dallo scienziato Pavlov mediante il cane a cui pertanto aveva annunciato il cibo con il suono di un campanello affinché con suo udirlo lo confermava presente anche quando assente e oggi onnipresente sulla Terra come la scienza in sua vece.
E cioè appresa materna conferma che l’uomo fornisce al di là della sua espressione e quella che la filosofia ha tentato di arrestare ma ampliandola a dismisura dal momento che al suo cospetto come la ferma radice della violenza e la medesima somministrandogli il cibo in assenza del padre che intanto lo procurava e così di suo nutrendo il suo avversario perché privo dell’esperienza per ravvisarla suo pericolo.
E quando Emanuele Severino faceva sapere Lucifero bello, indicava la strada per scoprirlo, e quella che ogni suo destinatario potrà edificare e ponendo il suo sguardo nel vuoto e l’assenza della madre come femmina negli stessi ripari e rimedi di cui si avvale, e la procura del cibo e la costruzione dell’abitazione, e che ogni uomo necessita per difendersi dalla morte che ignora ampliata per sua stessa cecità.
I tentativi del Nuovo Realismo sono filosoficamente imbarazzanti. In primis quelli del loro capofila, Ferraris.
Risulta difficile comprendere come i tentativi attuali di superare il relativismo ed il nichilismo possano obiettare a quelle posizioni che la percezione sarebbe una fonte di delusione, come fa Ferraris. Forse che nessuno dei filosofi da Nietzsche a Foucault non se ne fosse mai accorto? Mi pare che proporre loro di ricondizionare il gusto del cibo invece di aggiungere del sale non sia esattamente quel che si possa chiamare un’obiezione che coglie nel segno. Questo il nocciolo della sua argomentazione:
“Se l’αἴσθησις è centrale per un’ontologia, è perché la percezione, che una lunga tradizione fatta di bastoni immersi nell’acqua vuole associare all’illusione, è invece la massima fonte di delusione che si possa concepire. Ci aspettavamo x, ed ecco che percepiamo y, il caffè è freddo, la minestra manca di sale, la giacca di velluto beige diventa salmone con la luce artificiale…”.
Questa dovrebbe smentire la tesi «secondo cui l’intelletto (attivo) giocherebbe un ruolo costitutivo rispetto all’esperienza sensibile (passiva)». Ma se credessimo di sposarci con PeterPan e poi ci trovassimo al fianco Grande Puffo, questa non sarebbe ancora la prova del fatto che l’intelletto non giochi un ruolo attivo. Nessun soggettivista o nichilista della nostra tradizione ha mai negato la possibilità dell’errore o della delusione, semmai che errore e delusione potessero avere un fondamento ontologico, ovvero che fosse individuabile un criterio reale che consentisse di distinguere il vero dal falso. E, questo, forzando le aporie che conseguivano ai presupposi del realismo, seguendone la logica interna. Che una minestra condita col catrame non piaccia a nessuno non costituisce una grande obiezione al relativismo, che tutti non possano sopravvivere senza bere acqua, non prova ancora nulla circa l’esistenza dell’universale e dell’oggettivo. Proprio il fallimento di questo tentativo nell’Età moderna ha condotto alla concezione filosofica postmoderna.
Il problema, del tutto ignorato da Ferraris, era proprio quello di individuare delle proprietà che fossero oggettive, indipendenti dalla relazione tra soggetto e oggetto: pretesa che pian piano si è rilevata vana.
Il gioco di Ferraris sembra funzioni perché propone qualcosa di verosimile (il punto di partenza della riflessione filosofica non può che essere il realismo ingenuo), ma separando la percezione dall’intellezione si dovrà rimanere ancor più delusi, perché si giungerà una volta di più alle aporie o al nichilismo insiti nella separazione tra soggetto e oggetto, o, come vuole Ferraris, tra ontologia ed epistemologia.
Ferraris ritiene necessario separare l’ontologia dall’epistemologia, altrimenti non sarebbe più possibile distinguere tra vero e falso. Certo, ma è proprio perché la riflessione filosofica ha condotto all’impossibilità di distinguere il vero dal falso, che ha dovuto affermare l’impossibilità di distinguere i due piani (l’ontologico dall’epistemologico). Sulla stessa linea sembra collocarsi De Monticelli, affermando che «la fenomenologia, dunque, condivide una convinzione di Platone: che se le cose non hanno essenze, la filosofia è un’impresa cognitivamentesterile, o non può essere ricerca di vera e nuova conoscenza. Incapace di vere scoperte, sarebbe incapace anche di vera emozione intellettuale, di vera comprensione della realtà». Dove si pensa ancora che, «per quanto riguarda la realtà delle cose, esse stanno come stanno del tutto indipendentemente da quello che noi ne pensiamo», esse «sono “là in se stesse”». I critici del postmoderno sembrano dunque negare questa acquisizione – l’impossibilità di demarcare l’ontologia dall’epistemologia, ovvero l’oggettivo (i fatti) dal soggettivo (le interpretazioni) – senza affrontarla direttamente, ma semplicemente dichiarandone assurde le conseguenze, quando invece proprio l’impossibilità delle categorie della visione tradizionale moderna (appunto precedente al postmoderno) aveva condotto a gridare all’assurda arbitrarietà dell’esistenza, annunciando la profonda crisi nella quale avrebbe dovuto versare.
Io non sto assolutamente con Vattimo, ma Ferraris non è meno (filosoficamente)imbarazzante.
Non saprei dire altro se non di essere nella sostanza d’accordo con quanto scrive Gabriele Zuppa
La debolezza di Ferrais e soci è chiara da tempo. Anch’essi appartengono al postmoderno, anche dopo aver sposato la tendenza neorealistica. E ciò perché – qui lo affermo seccamente e rozzamente – non intendono fare i conti non con Severino, ma con il p.d.n.c.
Il problema è che anche alcuni allievi di Severino (Vedi Tarca, uno dei più dotati teoreticamente, anche se meno conosciuti, e vedi Berto che si dichiara per il dialeteismo e la logica paraconsistente di Grahham Priest) si gingillano con operazioni contrarie allo stesso principio.
Neanche un logico e analista serio come Diego Marconi affronta la questione nel suo per altro pregevole ‘Per la verità’. L’articolo poi di Ferraris in risposta a Severino su Repubblica del 18/09/2012 è incredibilmente leggero, sorvolando ciecamente sul nucleo essenziale della critica severianiana. È dura ammettere di vivere nella contraddizione credendo di essere nella non contraddizione e nella verità.
E’ vero, gentile Hernandez. Hic Rhodus…Io parlo di logica formale, lei di principio di non contraddizione, ma è lo stesso: la prima si definisce proprio per l’uso esclusivo del secondo. Grazie