Oggi ricorrono i trent’anni della morte di Sergio Leone (Roma, 3 gennaio 1929 – 30 aprile 1989). Una pagina per aggiungere un nostro tributo alle molte iniziative per ricordare il grande regista
Violenza e azione, movimento e conquista, tecnica e nichilismo sono le cifre di un Paese che tuttavia non riesce a liberarsi completamente, e per fortuna, da un primordiale «non essere». Solo poco più di cinque secoli fa quel Paese fu battezzato America dagli europei in cerca della via delle Indie. Quasi che lo struggente desiderio di Oriente di Colombo, il suo smarrimento di fronte alla scoperta di un inatteso Ovest, fossero insiti nel codice genetico americano e nell’immaginario ultraoccidentale.
Meglio di tutti, innamorato com’era dell’America, lo intese Sergio Leone, il quale si approssimò film dopo film all’«orientalismo» del West, a cominciare da Per un pugno di dollari (1964), ispirato a La sfida del samurai di Akira Kurosawa. Nei suoi western, più autentici degli originali perché cesellati nella distanza geografica oltre che cronologica, Leone dilata spasmodicamente i tempi del racconto che si basano su lunghe pause, su inquadrature di dettagli, sulle celebri digressioni musicali di Ennio Morricone (in realtà fatte di rumori come l’inizio di C’era una volta il West). Nello stile di Leone la inazione è altrettanto importante dell’azione. Non solo. Egli introduce il flashback nell’ambito del Western, un genere nostalgico a tutto tondo che però vive della finzione dell’eterno presente e non si concede il lusso di una riflessione sul tempo, almeno fino a Liberty Valance, che apre la strada ai film di Monte Hellman, allo stesso Leone, a Gli spietati di Clint Eastwood.
Ebbene, Sergio Leone suggella il suo lungo viaggio nella mitologia americana con un ineffabile sorriso nel vuoto, quello di Noodles/Robert De Niro di C’era una volta in America (1984), film-summa con un inizio e una fine ambientati in una fumeria d’oppio che è anche un teatro di ombre cinesi. L’epilogo di quel sorriso ineffabile è reso con un primo piano in verticale, dall’alto verso terra, la posizione della macchina da presa più antiwestern che si possa immaginare, giacché il Western è vivificato dai movimenti del dolly che, sollevandosi, palesano la meraviglia di un orizzonte largo, mentre Leone li sospingeva sovente verso il basso. Qui la storia del secolo americano nel labirinto di un’amicizia infantile e del suo tradimento, ma ancor di più la fascinazione di un grande regista per l’universo a stelle e strisce di cui è diventato l’ammirato cantore, precipitano in un mistero orientale. Quello di Noodles è forse una replica moderna del «sorriso della Gioconda», ma è soprattutto la contemplazione distaccata, onirica, auto-ironica dagli eventi che sono stati o saranno sognati.
Il tempo, la memoria, la nostalgia, l’amicizia, l’amore, il sesso, nell’impareggiabile sorriso di De Niro – l’ultima immagine mai girata o almeno l’ultima mai montata da Leone – si stemperano, addolcite, in un’assenza giustificata dalla Storia. E’ il nirvana dell’Occidente.
——
Dal libro “Visioni americane. Il cinema «on the road» da John Ford a Spike Lee” di Oscar Iarussi (Adda ed, 2013)