Non me n’ero accorto e devo ammettere, per correttezza, che l’osservazione mi è stata suggerita da uno/a dei miei laureati che tuttavia, avendo davanti ancora anni di lavoro, intende giustamente mantenere l’anonimato.
Proviamo a mettere in ordine cronologico i nomi degli ultimi pontefici.
1958-1963: Giovanni, quello che Gesù amava (Gv 13.23) e che si trova ai piedi della croce dove Gesù gli affida sua madre (Gv 19.26-27);
1963-1978: Paolo, l’apostolo delle genti (Rm 11,13 e Gal 2,8), il fondatore – forse – del cristianesimo latino come lo si è poi conosciuto nella storia occidentale;
1978-1978 e 1978-2005: Giovanni Paolo, a segnare l’inizio della vicenda storica che coniuga la tradizione ebraica e la cultura occidentale
2005-2013: Benedetto, il monachesimo, la grande forza diffusiva del cristianesimo altomedievale;
2013- : Francesco, uno slancio nuovo nella consapevolezza del messaggio cristiano nel tardo medioevo e forse di una presenza millenaristica nell’attesa della realizzazione del Regno.
Messi in fila, ripropongono alcuni passaggi fondamentali della nostra storia degli ultimi duemila anni. Mi viene una curiosità irresistibile di sapere quale nome sceglierà il prossimo pontefice, anche se naturalmente auguro lunga vita all’attuale. Tuttavia ne può nascere anche un dubbio atroce: Francesco dice di essere stato preso dai confini del mondo. Geografici o cronologici? La curiosità cresce e non mi dispiacerebbe essere presente in platea quando il capocomico viene in palcoscenico a ringraziare e dire che tutto è finito.
L'ASINO DI BURIDANO
Mi chiedo se possa essere davvero liberatoria e laica la deriva ermeneutica secondo cui, in fondo, tutto è interpretazione e le cose e i fatti non esistono. Preferirei affermare in modo assai più patetico e indifendibile che tutto è conoscere.
Forse vale la pena accennare a una questione da far tremare i polsi e che riguarda il rapporto tra linguaggio, razionalità e interpretazione, da un lato, e attività conoscitiva dall’altro. A questo proposito non è necessario scomodare il mitico Galilei e le sensate esperienze. Già Agostino separa nettamente l’atto conoscitivo dal segno che lo genera; anche se ciò non produce affatto una scissione nel soggetto che li intende, bensì un continuo esercizio di confronto e di approfondimento.
Per quanto valore si voglia attribuire alle parole, si rimane entro questi limiti: non possono mostrarci le cose per farcele conoscere, ma possono stimolarci alla loro ricerca. Mi insegna invece qualcosa chi mi presenta agli occhi o a un altro organo corporeo di senso o alla mente stessa le cose che desidero conoscere (De magistro 11.36).
Ovviamente non sta ancora parlando del cannocchiale. In ogni modo, se per interpretazione si intende il chiarimento di comuni parole sempre attraverso comuni parole, non si esce dal recinto del linguaggio. Per certi versi avrebbe allora ragione il tanto – ingiustamente – vituperato Isidoro di Siviglia. L’etimologista folle, per il quale tutto in linea di principio è segno linguistico, tutto in fondo deve avere un nome appropriato, altrimenti non esiste conoscenza alcuna.Nomen dictum quasi notamen, quod nobis vocabulo suo res notas efficiat. Nisi enim nomen scieris, cognitio rerum perit.
Tuttavia la libertà intellettuale, e quindi l’innesco del dubbio, più che nel sospetto metafisico risiede forse nel gioco incontrollato e incontrollabile tra le due dimensioni, quella linguistica, pubblica e intersoggettiva, e quella conoscitiva, psicosomatica e soggettiva. Dunque l’autore insegna molto più di quello che afferma, tanto involontariamente quanto fatalmente, perché non è padrone dell’effetto dei segni che adopera; nessuno probabilmente lo è e non esiste l’esclusiva, nemmeno quella divina (Isidoro per molti versi ne è ben consapevole).
Così leggo la curiosità di Massimo di conoscere come va a finire la Storia occidentale, di conoscere il capocomico faccia a faccia, secondo quella provocatoria sequenza di nomi propri – e che nomi!
Come rileva ancora Isidoro, del resto, il nome non designa solamente un individuo, ma connota una appartenenza: Nomen vocatum, quia notat genus, ut Cornelius. Cornelii enim omnes in eo genere. Nel caso in questione è l’appartenenza simbolica ad un passaggio fondamentale della nostra storia, piuttosto che ad una potente famiglia gentilizia. Di qui il dubbio gioachimita e sconvolgente: se per confini del mondo bisogna riandare con la propria memoria ad un riferimento fisico-spaziale, oppure al temibile epilogo di un’epoca veneranda, alla Patagonia o all’apocalisse della Cristianità (di nuovo l’evangelista Giovanni a chiudere il cerchio come ultimo papa – oppure, dio non voglia, Silvio, l’imprevisto quinto Cavaliere?).
Dopo duemila anni di parole e di interpretazioni mi sembra un desiderio più che legittimo e condivisibile, anche se potenzialmente atroce nella sua ultimatività. Ma questo ha meno importanza, poiché non credo interessi il millenarismo, quanto un ludus di filosofia della storia.
Riprendo un suo passo:
“… ne può nascere anche un dubbio atroce: Francesco dice di essere stato preso dai confini del mondo. Geografici o cronologici? La curiosità cresce e non mi dispiacerebbe essere presente in platea quando il capocomico viene in palcoscenico a ringraziare e dire che tutto è finito.”
Beh, e se il capocomico fosse già arrivato? Solo che presi nelle nostre cornici dogmatiche ancora resistenti neppure ce ne siamo accorti? Anzi la storia degli ultimi duecento anni ha proposto molti capocomici, “maestri del sospetto” appunto, che si erano ben accorti che “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” e che “anche questo è un gioco” …
Proprio il dubbio, non atroce ma liberatorio, citato alla fine del post apre a questa possibilità.
Ma Agostino stesso ricorda che le cose e i discorsi possono insegnare più di quanto volesse fare il loro autore. Proprio la involontarietà rende impressionante la sequenza dei nomi.
E noi laici? Dobbiamo essere superiori agli schieramenti precostituiti e se il regista venisse sul palcoscenico ad annunciare la fine dello spettacolo, io lo applaudirei volentieri e senza rancore.
Dài, Massimo … sei spiritoso, ma … Giovanni si è chiamato così per elidere, espungere, cancellare, annullare un Giovanni XXIII che si era ritrovato ad essere antipapa dopo che nel 1414 aveva emanato la bolla che indiceva il Concilio di Costanza, che nel ’17 aveva deciso per un altro papa (Martino V): Giovanni però non si oppose troppo e finì per dimettersi e diventare cardinale vescovo di Tuscolo: insomma, il Concilio riportato nel codice dell’ortodossia ad opera del Roncalli.
Paolo, il continuatore di quel Paolo V che, per quel quasi niente che ne so, mise in pratica alcune delle risoluzioni del Concilio di Trento: ancora la traccia dei concilii; Giovanni Paolo, per cercare di trovare una forza nell’ombra e nello specchio di tanti e tanto immediati predecessori, di cui forse voleva essere adeguato continuatore; il secondo, perché la vicenda del primo aveva intenerito l’opinione pubblica e proprio questo aveva eliso la forza dei due nomi creando un’endiade nuova.
Benedetto, credo che nessuno storico si sia ancora applicato a studiarlo: ma Benedetto XV è stato pontefice di grande spessore, e il XVI pure. Francesco, si diceva già in fase di Conclave: forse ci si immaginava che dopo due pontificati di grande e/o grandissimo rilievo sarebbe stata necessaria una rottura anche nel nome – no, una “intermittenza”: ecco, diciamo così. Lasciamo stare i giochini alla Elliot (Harry up please it’s time) … Non avremo tanto bisogno di prospettive apocalittiche, no? – O forse si, forse stiamo cercando dei profeti che ci annuncino, se non la fine della storia e un mondo migliore, almeno la fine della storia e del mondo tutt’insieme?
(E … noi “laici”, che fine facciamo?)