Il senso della vita, l’interrogarsi affannoso o ironico sulle cose ultime e penultime, le responsabilità quotidiane rispetto “alla finitezza e alla bellezza dell’essere al mondo” per dirla con Freud. Giornata pensosa, ma con smalto ieri alla Mostra di Venezia, soprattutto grazie a due film che battono bandiera britannica. In concorso è passato The Zero Theorem di Terry Gilliam, settantatreenne genio comico nato a Minneapolis e naturalizzato inglese. L’ex Monty Python, autore di capolavori come Brazil, La leggenda del re pescatore (premiato a Venezia nel 1991) e L’esercito delle 12 scimmie, fa un’ennesima incursione nel futuro. Più che di fantascienza, in verità, si tratta di una deformazione grottesca della realtà non poi così distante dal nostro presente: una società caotica, mercantilistica, sempre “connessa” alle reti e popolata da una folla di solitari, spesso sconnessi dal buon senso, disperatamente alla ricerca di qualcosa o di qualcuno.
In The Zero Theorem un Christopher Waltz completamente calvo (l’attore austriaco prediletto da Tarantino in Bastardi senza gloria e Django Unchained) interpreta un talento informatico in attesa costante di una provvidenziale telefonata che potrebbe rivelargli ciò che ossessivamente cerca – invano – di risolvere: il “teorema zero”, ovvero il mistero e il significato dell’esistenza. In uno scenario tra Blade Runner e certe fantasie felliniane care a Gilliam, assisteremo alla timida rivolta del protagonista contro la società di elaborazione dati per cui lavora senza sosta, un’entità orwelliana che si chiama “Management”. A dargli manforte sono il figlio del boss della società e una ragazza che lo inizia alle delizie del sesso virtuale. Anarchico, pirotecnico e per certi versi “filosofico”, il film a basso budget segna il ritorno di Gilliam alla sua vena migliore.
Da Londra arriva anche Locke di Steven Knight, fuori competizione. E’ una sorta di one-man show cinematografico, la storia tutta in una notte di Ivan Locke (Tom Harry, già nei panni di Bane l’arci-nemico di Batman). Il Nostro è un direttore dei lavori, il capocantiere esperto ed affidabile di un colossale grattacielo in costruzione. La sera prima della colata di calcestruzzo prevista all’alba, un’operazione decisiva per il prosieguo e la tenuta futura dell’opera, il Nostro sale sull’automobile, ma non si dirige verso casa dove moglie e figli lo aspettano festosi per assistere a un evento sportivo in Tv. No, sta andando in un ospedale a un paio di ore di distanza. Colà una donna conosciuta sette mesi prima – “non bella, sola, triste, 43 anni” – sta dando alla luce prematuramente un bambino. Il suo, di Locke.
Il viaggio si trasforma così in una serrata conversazione continuamente interrotta e ripresa coi datori di lavoro che lo licenziano al telefono, con l’operaio incredulo cui si affida per il buon esito della cruciale colata (“Il calcestruzzo è come il sangue”), con le autorità comunali che devono chiudere le strade al passaggio dei 211 camion pronti al trasporto del materiale, ma anche con la moglie disorientata, con i ragazzi e con l’”altra” che sta per partorire e lo aspetta perché le tenga la mano. Un parto che si rivela difficile visto che il cordone ombelicale rischia di soffocare il nascituro. Soprattutto Locke parla col padre morto, un fantasma invisibile nella sua auto, insultandolo e dicendogli che lui, Ivan, non si sottrarrà alle responsabilità disattese a suo tempo dal genitore. Locke si gioca tutto e sa di poter perdere tutto o quasi, tranne la dignità, perché quel bimbo di una donna che non ama avrà comunque il suo nome e, venendo al mondo, vedrà il sorriso del papà. Prova superba di attore e ottima scrittura cinematografica in un film la cui tensione non scema, applaudito alla Mostra.
Più controversa l’accoglienza in concorso di Tom à la ferme (Tom alla fattoria) dell’enfant prodige del Quebec, il regista/protagonista canadese Xavier Dolan, 24 anni, al suo quarto film dietro la macchina da presa. Storia di un ragazzo gay che va a trovare la madre e il fratello del suo compagno appena scomparso, lasciandosi irretire in una torbida trama, bucolica e sado-maso. Un gioco pericoloso sulle identità manifeste o ignote da cui si sottrarrà, a fatica, nel finale.
Mentre, quanto alle speranze nel futuro, fanno testo anche due film “scolastici” visti ieri a Venezia. La mia classe di Daniele Gaglianone (Giornate degli Autori) racconta di un gruppo di stranieri della periferia romana impegnati ad apprendere la lingua italiana, sotto la guida di un insegnante indulgente e volitivo, l’unico attore sul set (Valerio Mastandrea). E At Berkeley del grande documentarista americano Frederick Wiseman è una riflessione di oltre quattro ore sulla celebre università californiana, la più grande fra quelle pubbliche negli USA, che fu la culla della protesta contro la guerra in Vietnam e della controcultura beat. Vediamo professori e allievi presi da una fervida dialettica sui contenuti didattici, ma anche sulle spese da contenere nonostante la maggior parte delle risorse sia destinata alla ricerca. Insomma, proprio come in Italia…
(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 3 settembre 2013)