Che fa il Dipartimento di Stato Americano, agita lo spettro della Chiesa patriottica americana? Non è un bel vedere quello del Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, Mike Pompeo, che sceglie proprio la corazzata First Things, punto di riferimento del cattolicesimo anti Bergoglio, quello nostalgico dell’ordine per-conciliare, per pubblicare un suo scritto nel quale chiede al Papa di cancellare l’accordo provvisorio con cui la Santa Sede da due anni cerca di regolare con Pechino le nomine dei vescovi in Cina. Certo, quelli tra Vaticano e Casa Bianca rimangono screzi rispetto a ciò che balla tra Vaticano e Pechino, ma proprio per questo la cosa grave non è tanto quel che dice Pompeo, ma dove lo dice.
La tesi di Pompeo infatti, esponente cattolico dell’amministrazione Usa, non appare dunque su un giornale della destra americana, come sarebbe suo logico diritto, ma su un organo di informazione ultraschierato nel dibattito cattolico e che fa dell’inimicizia per il Papa regnante il suo tratto distintivo. La questione che pone poi non riguarda la Città del Vaticano, di cui Pompeo è ovviamente interlocutore autorevole, ma la Santa Sede. L’accordo con Pechino infatti è sottoscritto dalla Santa Sede, e firmato dal Papa quale pastore universale della Chiesa cattolica, non quale capo di Stato.
Pompeo sostiene che se l’intesa venisse rinnovata l’autorità morale della Chiesa sarà minata. Dunque la scelta del luogo di pubblicazione sembra proprio dar voce al desiderio di un pronunciamento esplicito di una sorta di Chiesa patriottica americana, fedele a Trump e non al Papa. Il dubbio è davvero legittimo?
Che le acque nelle gerarchie cattoliche a stelle e strisce siano agitate Pompeo lo sa, per questo il suo passo anti-diplomatico è chiaro e l’attacco pesante. Quel che Pompeo non sa è che questo accordo, finalizzato da Benedetto XVI e poi ratificato da Pechino del tempo di Francesco come ha potuto constatare il decano del Collegio Cardinalizio, cardinale Re, riguarda un tema specifico. Non coinvolge il Vaticano, riguarda esclusivamente la Santa Sede, non tocca il tema di un eventuale concordato, o di un riconoscimento del governo della Repubblica Popolare Cinese da parte di Roma. No. Riguarda i criteri di nomina dei vescovi cinesi. Spesso perseguitati, arrestati, impediti di svolgere le loro funzioni in ossequio al loro obbligo di fedeltà a Roma e al Papa, non a Trump o a Pompeo.
Ricercare questa intesa è di fondamentale importanza in un paese-impero dove l’imperatore, oggi segretario del Partito Comunista Cinese, è stato definito da secoli “figlio del cielo”. Il problema dunque è quello di trovare un sistema che renda i vescovi fedeli politicamente al loro Paese indipendente e sovrano, e religiosamente sottoposti all’autorità del vescovo di Roma, che tutte le chiese presiede nella carità.
La Chiesa cattolica in Cina ha conosciuto la stagione della Chiesa patriottica, i cui c’erano vescovi non riconosciuti da Roma, a volte costretti a considerarsi funzionari del Partito, fedeli al Pechino. Gli altri erano “clandestini”. Una Chiesa ufficiale, una Chiesa clandestina, sommersa, perseguitata. Quando Pechino ha capito che la religione non si lascia estirpare ha avviato una politica di dialogo, la cosiddetta politica dell’armonia. Un cammino difficilissimo per chi comunque pensava alla sinizzazione, rendere cioè tutto “ortodossamente” cinese.
Il lungo lavoro della Chiesa cattolica, avviato ai tempi di Giovanni Paolo II e che ha conosciuto tanti momenti estremamente difficili, si è fondamentalmente basato sulla ricerca di un nuovo rapporto: la Chiesa cattolica non è nemica, non è espressione dell’Occidente, del capitalismo, degli Stati Uniti. La Chiesa cattolica in Cina è cinese, fatta da cinesi che possono essere fedeli al loro Stato mentre da un punto di vista religioso, confessionali, sono fedeli a Roma. Un concetto non facile da spiegare ai signori che governano per conto del “figlio del cielo”, ma essenziale. Dopo secoli in cui i cattolici hanno brillato per loro sottomissione agli interessi occidentali questa visione era una rivoluzione, per la quale Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi hanno speso enormi energie.
Quando l’accordo desiderato dal Vaticano è stato finalmente accettato a Pechino non tutti però hanno festeggiato. La destra anticomunista e soprattutto anticinese ha chiesto alla sua vecchia Chiesa di rimanere un baluardo di ostilità, di inimicizia per Pechino. A discapito dei cattolici cinesi? Certamente. Della loro libertà religiosa e vita religiosa, del loro essere cattolici cinesi, ai signori del no poco interessa. Pompeo lo dimostra con una svista grossolana. Nel suo testo parla di obbligo a difendere la libertà religiosa in Cina, ma non cita neanche di striscio la più grave persecuzione che vi ha luogo, quella della minoranza musulmana, gli uiguri. Chissà come mai. Dunque è un’ingerenza, finalizzata al voto politico americano, solo i ciechi possono pensare che sia un passo diplomatico dovuto alle difficoltà tra Cina e Stati Uniti. No; è il tentativo di ingerenza di un governo nella vita dei cattolici degli Stati Uniti, un atto che almeno nella forma ricorda i metodi cinesi più che quelli statunitensi. La sostanza per fortuna non ha nulla a che fare con quel mondo fatto di manette e campi di detenzione, questo è chiaro, la differenza ovviamente è enorme, ma ci sono tanti altri modi per fare campagna elettorale verso i cattolici. Alla Casa Bianca sognano davvero il pronunciamento di una Chiesa patriottica americana che si dichiari fedele a Trump. Questo Pompeo lo sa e dovrebbe sapere che questi devono rimanere “beni indisponibili”, anche in una campagna elettorale al calor bianco come quella americana.
La Santa Sede con l’accordo provvisorio con Pechino cerca di aprire le porte del pluralismo nel monolite imperiale cinese. E’ un cambio di passo storico visto che apre le porte anche al pensiero critico.
La Chiesa di Roma ha esperienza al riguardo, una lunga esperienza. I criteri di nomina dei vescovi non sono certo un problema sconosciuto dalle nostre parti. Nel IV secolo esordì l’imperatore Costantino, che si convertì solo in punto di morte ma molto prima di allora pretendeva di nominarli lui. Lo stesso accadde in Europa occidentale con Carlo Magno. Un’ingerenza altrettanto netta e famosa di un imperatore tanto cristiano quanto poligamo. Poi, nel periodo feudale, i vescovi divennero anche dignitari, feudatari, e sovrani vari cercarono ovviamente il potere di nominarli loro. Così si arrivò al conflitto tra Gregorio VII e l’impero che produsse un compromesso che ricorda un po’ la base cinese: il papa ebbe il potere spirituale, il potere temporale quello delle regalie. Solo nel XIII o XIV secolo le cose cominciarono ad andare come vanno oggi, anche se questo è in realtà un’apparenza storica, visto che dopo la rivoluzione francese, nel 1801, Napoleone ribadì il suo potere di nomine e impose il giuramento con cui i vescovi si legavano a lui.
La nomina dei vescovi dunque è alla basa dell’indipendenza della Chiesa, e Pompeo, quando decide dove esprimersi, dimostra di saperlo bene… Il suo intervento sembra auspicare dei cattolici cinesi anti-cinesi e dei cattolici americani filo-americani. Non c’è la minaccia di nomine parallele, questo è ovvio, ma un’ingerenza del genere sotto elezioni sembra chiamare i vescovi americani a pronunciarsi politicamente, è questa la gravità.