La violenza sottesa o manifesta, fisica o psicologica, occasionale o pervasiva, familiare o sociale, è uno dei temi ricorrenti di Venezia 70. Se n’è avuto un saggio nei film presentati ieri alla Mostra, che, lontani tra loro per estetica e geografia, sono accomunati da un’antropologia della ferocia su cui il cinema invita ad alzare la guardia. Un allarme senza sensazionalismi né moralismi, tuttavia forte e chiaro.
Il film più crudele a dispetto del titolo laconico, Die Frau des Polizisten (“La moglie del poliziotto”) è del tedesco Philip Gröning, in concorso. Tre ore scandite in 59 brevi capitoli che – un po’ alla maniera di Brecht – si chiudono ciascuno con un “sipario” in nero: scene di vita domestica di due giovani coniugi e della loro bimba. Una famiglia apparentemente perfetta: lui impegnato nel distretto di polizia di una cittadina, lei tutta intenta ad accudire il marito e soprattutto la figlia di tre anni. Scene se non da “mulino bianco”, almeno da libro dei sogni per l’invidia delle tante coppie in crisi a causa dei ritmi forsennati di vita e della fine dei ruoli tradizionali nel matrimonio (l’uomo che porta a casa i soldi, la donna angelo del focolare e custode della prole).
Ma la “perfezione” è appunto un sogno, anzi, un incubo che si manifesta con un livido vistoso sulla schiena di lei. Capitoletto dopo capitoletto, con quel buio interstiziale che prelude e allude alle tenebre, il regista “certosino” Gröning (Il grande silenzio il suo film più noto, sulla vita monacale nella Grande Chartreuse alpina vicina a Grenoble), narra l’inferno quotidiano della moglie del poliziotto. Nella “microfisica del potere” instaurata fra la cucina e la camera da letto, la vittima viene picchiata, umiliata, distrutta. La donna cerca disperatamente di preservare dalla violenza almeno la piccola fragile candida vita di cui è responsabile, fino a un epilogo estremo, aperto a più di una lettura. Die Frau des Polizisten disturba e inquieta, e il tedio da andamento lento che taluni accusano durante la visione potrebbe essere una paradossale forma di catarsi o diserzione. Come dire? La noia quale rifiuto di un contenuto troppo forte, intollerabile perché autentico, realistico, purtroppo sempre più ricorrente negli episodi di abusi in famiglia e di femminicidio.
Non meno scioccanti risultano talune sequenze di Joe dello statunitense David Gordon Green, con Nicholas Cage e Tye Sheridan, secondo film del concorso di ieri. In un agglomerato delle grandi zoni agresti del Texas un quindicenne in fuga dal padre brutale e ubriacone individua nel suo primo datore di lavoro una figura genitoriale “sana”, nonostante questi sia a sua volta un solitario e un violento, reduce dalla galera (lo interpreta Cage). Tratto dall’omonimo romanzo di Larry Brown, Joe è una ballata triste e sanguinaria sul bisogno di essere protetti e di proteggere, un confronto/scontro tra generazioni nel Profondo Sud ancora “selvaggio”, ferino, maschilista, quasi western per l’uso costante e ordinario delle pistole o dei fucili.
Più sublimata, ma palpabile fino al culmine di un’esplosione omicida nel finale, è la violenza che intesse la trama del noir a luci rosse di Paul Schrader, The Canyons, fuori concorso perché il regista è il presidente della giuria di “Orizzonti”. Schrader di storie forti se ne intende fin dagli esordi, circa quarant’anni fa, come sceneggiatore di Taxi Driver di Scorsese. Stavolta per la scrittura del film si è rivolto a un’altra icona del sogno americano in avaria, Beat Easton Ellis (American Psycho il suo romanzo più popolare). Il risultato è uno stralcio delle ambizioni e delle ossessioni dei giovani personaggi – un regista pornografico e il suo milieu orgiastico – che usano il sesso per la scalata sociale, in cerca di un ambiguo successo che li fa sprofondare nei metaforici canyon del titolo. I protagonisti sono il divo dell’hardcore James Deen e la spericolata Lindsay Lohan in perenne riabilitazione da eccessi di ogni tipo (assente a Venezia perché appena uscita dall’ennesimo ricovero in clinica).
Rabbia e xenofobia affiorano in Piccola patria, opera prima del documentarista Alessandro Rossetto, presentata in Orizzonti: un Nord-Est orfano del passato contadino e attraversato da una gioventù allo sbando che architetta giochi psicologici perversi e bersaglia gli stranieri. Infine una violenza granguignolesca – serrata e macabra con un retrogusto ironico per gli amanti del genere – infiamma Wolf Creek 2, fuori competizione, il seguito del fortunato horror di Greg McLean. Di scena c’è il sadico serial killer Mick Taylor a caccia di turisti nel deserto australiano, seviziati e “collezionati” in una piccola bottega dei rancori.
(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 31 agosto 2013)