2014, secondo anno del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. La Santa Sede approva la creazione della red eclesial panamazonica, la rete ecclesiale di tutta l’Amazzonia. Nella lettera inviata a questa nuova realtà ecclesiale a nome del Papa il segretario di stato vaticano ha scritto: «Non possiamo vivere soli, rinchiusi in noi stessi […]. Soltanto in questo modo, grazie alla rete, la testimonianza cristiana può raggiungere le periferie esistenziali umane, permettendo al lievito cristiano di fecondare e far progredire le culture vive dell’Amazzonia e i loro valori».
Ora, nel 2019, questa attenzione arriva a un nuovo frutto, la celebrazione di un sinodo speciale per l’Amazzonia. L’articolo del cardinale Pedro Ricardo Barreto che appare in queste ore sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica colma due lacune. La prima è quella di chi, pur dimostrandosi interessato al Sinodo sull’Amazzonia, che comincerà a Roma il sei settembre, lo ha osservato soprattutto dal punto di vista “strutturale”: davvero si arriverà alla concessione della possibilità di celebrare da parte di persone cresciute e particolarmente stimate nelle comunità amazzoniche senza bisogno che siano ordinate, quindi anche sposate? A pensarci bene la domanda sembra retorica: se davvero si vogliono officiare i riti in un continente sterminato come l’Amazzonia come altro si ritiene di poter procedere? Forse i seminaristi di Econe stavano pensando di trasferirsi in blocco? La questione dunque, su questo punto, è di nuovo se fino ad oggi il sabato sia stato per l’uomo o l’uomo per il sabato, cioè: la Chiesa che non ha consentito questa modalità nella sconfinata Amazzonia si occupava “della sua legge” o “del suo popolo”? Il problema è per chi si celebra e quale Chiesa celebra.
L’altra lacuna che viene colmata dall’articolo del cardinale Barreto è quella di chi, dimostrandosi impaurito da questo sinodo, lo ha guardato con tale animosità da ridurre i suoi abitanti da 34 milioni a 3 milioni, chiedendosi se abbia senso un sinodo per così poche persone. A guardar bene una ragione per ridurre gli abitanti i critici l’avevano, perché i 3 milioni ai quali hanno fatto riferimento sono evidentemente i popoli indigeni, che per qualcuno avrebbero potuto essere anche due milioni, o uno, o nessuno. E invece quei 2.800.000 indigeni (e aborigeni) esistono, tutelano la complessità umana preservando 390 popoli e 240 lingue. Passa da loro e per loro la possibilità di dar vita non più a una Chiesa di colonizzatori, né alla preferibile Chiesa per l’Amazzonia, cioè missionaria, ma all’indispensabile Chiesa dell’Amazzonia, cioè radicata e inculturata in quei popoli, quelle lingue, quelle culture. Sono le culture che sanno tutelare e proteggere il patrimonio globale del polmone del mondo, non conquistarlo.
Forse è per questo che i governi dei Paesi che si dividono la conca amazzonica non hanno guardato con favore all’imminente sinodo. Che la Chiesa universale ascolti i popoli dell’Amazzonia ai “governi del popolo” non piace. I popoli che a loro interessano non sono quelli indigeni, che non hanno sovranità, pur essendo tutelati nei loro diritti di autodeterminazione da specifici trattati sottoscritti dagli stati che si spartiscono l’Amazzonia, non rispettati dai governi. Ma chi ama il popolo può disprezzare i popoli? Nella critica della globalizzazione che questi governi fanno, la difesa dell’Amazzonia e dei popoli amazzonici curiosamente scompare, le multinazionali diventano amiche, confermando che ha ragione Papa Francesco quando scrive: “La visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità. […] È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura”.
Arriviamo così al punto centrale e cruciale dell’articolo del cardinale Pedro Ricardo Barreto. Tutti sappiamo che la minaccia che incombe sull’Amazzonia è quella estrattiva: le ricchezza del suolo e del sottosuolo solo tali da rendere l’Amazzonia l’oggetto del desiderio di tantissimi, incuranti delle conseguenze per l’ecosistema che consente la vita di tutti. Dunque lo sviluppo umano integrale, cioè quello sviluppo che richiede di sapere difendere i territori e le culture che li vivono, li difendono, li amano, li incarnano, passa indispensabilmente dai popoli indigeni dell’Amazzonia, gli unici che la vivono, l’amano, la incarnano. Se il cristianesimo vuole essere per e nello sviluppo umano integrale deve essere inculturato in questo avamposto di tutela del mondo e della sua complessità, dei suoi equilibri e delle sue interdipendenze. Ma tutto questo è l’esatto contrario di quanto fanno non solo i governi che si spartiscono la conca amazzonica: “L’esperienza pastorale di decenni, e degli anni recenti (come la Repam), ci fa capire anche che tra i responsabili vanno compresi non soltanto quegli Stati in cui vengono sviluppate le industrie estrattive, ma anche alcune imprese straniere e i loro Stati di origine, vale a dire quelli che appoggiano e favoriscono gli investimenti estrattivi, pubblici o privati, al di fuori delle loro frontiere nazionali, approfittando della ricchezza della terra, a costo di impatti deva- stanti sull’ambiente amazzonico e sui suoi abitanti.”
La chiarezza del passaggio però non si coglie appieno se non si tiene conto di un altro passaggio del cardinale: “ Secondo la dottrina sociale della Chiesa, alla missione di ogni cristiano è associato un impegno profetico verso la giustizia, la pace, la dignità di ogni essere umano senza distinzione, e verso l’integrità del creato, in risposta a un modello di società predominante che produce esclusione, disuguaglianza e che provoca quella che papa Francesco ha chiamato una vera e propria «cultura dello scarto» e una «globalizzazione dell’indifferenza».”
Forse è più facile capire così che il sinodo di settembre parlerà di fede non soltanto a 2 milioni ed 800mila indigeni, ma a tutti i cattolici del mondo, per inserirli nel cammino che tutti conoscono ma pochi praticano dello sviluppo umano integrale. C’è un messaggio autenticamente universale e drammaticamente attuale in queste parole scritte da Papa Francesco nella Laudato si’ al riguardo dei popoli nativi: “Il riconoscimento e il dialogo saranno la via migliore per trasformare le antiche relazioni segnate dall’esclusione e dalla discriminazione.” Sarebbe bene pensare a tante teatri di crisi, pensare alle politiche di potenza di tanti governi, e poi rileggere queste due righe.