Ho sempre sognato di poter circumnavigare il Mediterraneo, partendo dalla Spagna magari, e andare così alla ricerca di quel mitologico Oriente che non esiste se non come evocazione dell’antica questione d’Oriente, cioè del riassetto dei territori che furono ottomani nello spazio della mia vita e della mia identità che condivido con arabi, musulmani, ebrei, turchi, armeni ma in una dimensione che o è cosmopolitica o non è mediterranea.
Questo viaggio, circumnavigare il Mediterraneo, nessuno può farlo, figurarsi dopo il 2011. Anche per questa dolorosa limitazione anni fa mi sono trovato sul treno che collega Mosca e Vladivostok, scoprendomi costretto a chiedermi con un po’ di preoccupazione se dietro la prossima siepe avrei dovuto attendermi un’imboscata da parte degli uomini di Gengis Khan. Lì, nelle steppe siberiane, si ha sempre la sensazione che lui possa aspettarci, guardingo e corrucciato, mentre segue con sospetto la nostra corsa disperata, mentre fuggiamo in realtà da San Pietroburgo. Il vero bivio della storia europea probabilmente è quello: San Pietroburgo o Vladivostok? Ma l’autoritarisimo di cui Gengis Khan ha intriso le steppe siberiane ci accompagna attraverso l’ interminabile viaggio da un capo all’altro del blocco eurasiatico facendoci attraversare senza scosse quelle miserevoli colline che chiamiamo Urali: uno sforzo che unisce presente e passato, dando un senso alle fatiche di Pietro il Grande, al suo indomito coraggio di guardare verso l’Europa.
Ma davvero per riuscirci doveva mandare in esilio i decabristi sulle sponde del lago Baykal, impegnarli a costruire case mozzicate dal vento sulle rive del Volga? E quello spiacevole spettacolo delle fortificazioni costruite a ridosso del fiume dai cosacchi cosa rappresenta se non una disperata corsa a convertire, cristianizzare, battezzare, con le cattive più che con le buone? Loro, gli indigeni, sono così scomparsi nelle cave di un paesaggio lunare che oggi vede Lenin in ogni piazza, da Mosca a Vladivostok, prima che inizi l’ ovunque imprescindibile Ulitza Karla Marxa. Altro che Far West, è stata quella, la conquista del Far East, la vera impresa coloniale, prima zarista e poi sovietica, capace di cancellare habitat e culture lungo una fascia di territorio così ampio da superare abbondantemente la Cina, facendo impallidire la memoria di Gengis Khan, mentre sulle sponde del Mare del Nord, a San Pietroburgo, si tentava l’impresa di creare una borghesia imprenditoriale moderna, capace di guardare il treno sul quale ho viaggiato io, esclamando rapita: “A Mosca! A Mosca!”
Oppure Gengis Khan continua a inseguire i russi da tutte le boscaglie di betulle che rendono monotono e struggente il loro paesaggio? Inondati dai raggi di quelle chiese dalle cupole a cipolla che li uniscono nella sola fede praticabile dai tempi della conversione della Rus’, illudendosi che Mosca sarà la Terza Roma, unirà il mondo sotto i suoi voleri, e farà di Gengis Khan un condottiero della cristianità inorridita davanti all’ambigua cittadella di Pietro il Grande prona ai sogni di un liberalismo lascivo, i russi permangono nel loro assolutismo convinti che sia solo una risposta alla memoria di Gengis Khan, mentre è il loro sogno futuro.
Cosa separa questo desiderio profondo dei russi, che non si definiscono siberiani neanche se vivono da un secolo in Siberia, da quello dei loro vicini del fianco sud, i persiani, immersi anche loro in una prospettiva transcontinentale e imperiale, pronta a cercare riscatto per antiche disfatte come la battaglia che nei pressi di Mosul vide trionfare Alessandro il Macedone, proprio come i russi cercano dietro ogni curva della loro ferrovia la rivincita imperiale e assolutista dopo Stalingrado. Dov’è il confine in queste terre tra Oriente e Occidente?
Se il piccolo Obama avesse preso il treno almeno una volta in vita sua non avrebbe frainteso tutto il senso della storia europea, non avrebbe consegnato in gentile omaggio a Tehran tutto lo spazio Mediterraneo, riducendolo a un corridoio per milizie tanto feroci quanto ferventi, non avrebbe ignorato che Alessandro il Macedone fissò proprio a Gaugamela, a ridosso di Mosul, il confine invalicabile degli scià di Persia, facendo della Mesopotamia la terra di mezzo e della Siria il vero Levante cosmopolita, non avrebbe donato due grandi sedi califfali come Damasco e Baghdad ai discendenti di Khomeini, assetati di riscatto, lasciando l’Europa isolata nel suo spazio periferico, separata dal Mediterraneo e dal liberalismo che ha sempre attratto russi, turchi, iraniani, armeni. Tutto sommato il nazionalismo sulle sponde meridionali del Mediterraneo è nato malato anche per questo, con Ataturk che ha sognato una Turchia per i turchi mentre è terra di tutti, a cominciare dagli armeni, con Asad che ha sognato la Siria nuova grande Siria ottomana che si estende su Libano, Palestina, Giordania, Israele, altro che carovaniera tra Est e Ovest.
L’impero ottomano che seppe tenere insieme tutte le anime e le culture del Mediterraneo è scomparso nel mare immorale dei nazionalismi dopo aver speso la sua vita a guardare verso l’Europa, alla grande festa europea che lo abbracciava attraverso il collo di bottiglia euroasiatico, la martoriata Siria. Così la guerra siriana diviene più comprensibile: è la guerra tra chi sogna il Mediterraneo del vivere insieme, senza colli di bottiglia, senza strozzature, e chi invece ha ucciso il Mediterraneo per uccidere il liberalismo che dopo aver sconfitto nazismo e stalinismo si rifiuta di affogare in un mare di nazionalismi malati che cancellano Alessandro il Macedone, cancellano Gaugamela, eliminano le terre di mezzo, il Levante e sognano di assorbire l’Europa in un neo-dispotismo senza risorse, soggiogato ai Gengis Khan dell’oggi, quelli che corrono lieti nelle steppe asiatiche.
Tornando da Vladivostok è più facile capire perché il Mediterraneo sia un incubo per gli assolutisti: perché per quanto sulle sue coste abitino in tanti il Mediterraneo o è cosmopolita e quindi liberale o non è Mediterraneo. E questo oggi si decide in Siria, il collo di bottiglia che i despoti sperano di conquistare come fosse il Kyber Pass del tempo presente.