LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Per Ettore Scola

ROMA – Un saluto alla Casa del cinema di Roma “come fosse una festa”. La volontà estrema di Ettore Scola, il regista scomparso martedì sera a 84 anni, sarà onorata oggi pomeriggio – subito dopo la chiusura della camera ardente – con i ricordi di amici e colleghi. Coordinati da Felice Laudadio, parleranno fra gli altri Giuseppe Tornatore, Stefania Sandrelli, Walter Veltroni, Pierfrancesco Diliberto, Paolo Virzì e Jean Gili. “E’ una festa la vita”, concludeva Mastroianni regista in crisi di 8 ½ di Fellini. E all’amico e collega Federico, Ettore Scola ha dedicato il suo ultimo film, Che strano chiamarsi Federico!. Ne riproponiamo la recensione del settembre 2013 a mo’ di omaggio all’autore di film indimenticabili, come “C’eravamo tanto amati”, “Dramma della gelosia”, “Una giornata particolare”,  mosso anche dalla passione per la politica, a lungo nel Pci e sempre a sinistra. 

C’eravamo tanto divertiti. Ettore Scola è un po’ incredulo della diffusa e intensa commozione suscitata ieri a Venezia dal suo Che strano chiamarsi Federico. Scola racconta Fellini, proiettato fuori concorso alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal 12 settembre nelle sale italiane. Scola dice che Fellini non avrebbe approvato le lacrime. La loro amicizia infatti nacque e prosperò sotto il segno dell’autoironia, dei vagabondaggi notturni, di un disincanto non privo di tenerezza.

Scola ne approfitta per ribadire due cose importanti: Fellini non fu affatto il cantore delle tette e dei culi giacché verso la donna – e le donne tutte dalla mostruosa Saraghina alla fosforescente Ekberg – provava affetto, empatia e ammirazione: “un pianeta sconosciuto cui l’uomo cerca sempre di ricongiungersi”. Né fu un regista “disimpegnato” sebbene non fosse in linea con i canoni politici e ideologici allora in auge.

Che strano chiamarsi Federico è un memoir (in italiano, ormai si dice amarcord) ed è un tributo all’amico nel ventennale della morte, scritto da Scola con le figlie Paola e Silvia, e recitato fra gli altri da Tommaso e Giacomo Lazotti (nipoti di Scola), Antonella Attili e Vittorio Viviani nei panni del narratore. Il pugliese Sergio Rubini, già interprete del giovane Federico nell’autobiografia felliniana Intervista (1987), stavolta è un madonnaro che ha appena disegnato per terra un San Nicola di Bari, “nero, anzi marrone”, del quale è scontento perché non riesce a rendere bene le mani nei dipinti: “Solo Caravaggio e Michelangelo sanno disegnare le mani”. Il madonnaro accetta un passaggio da Scola e Fellini, li riconosce e – sorseggiando del vino da un fiasco – parla con loro del primato della pittura rispetto al cinema, dell’ispirazione e dei segreti dell’arte.

“Un album”, lo definisce il regista ottantaduenne assente sul set da una decina di anni, tranne che per un documentario-omaggio a un altro amico, lo sceneggiatore Sergio Amidei, nel 2005. Il film si apre con i versi del poeta spagnolo Garcia Lorca: “Vengono le mie cose essenziali / Sono ritornelli di ritornelli / Fra i giunchi e la sera bassa / che strano chiamarsi Federico!”. Poi si sfoglia davvero come un album dei ricordi, uno zibaldone immaginifico secondo la formula leopardiana e felliniana della raccolta di pensieri, visioni, aneddoti, vincoli, sodalizi, amori (sebbene per pudore non vi sia che un accenno a Giulietta Masina).

Fellini era nato a Rimini nel 1920, Scola è del 1931, originario di Trevico nella Campania irpina. Federico era dunque un fratello maggiore per Ettore: si riconobbero grazie alla comune passione per le vignette, le storielle e quindi per i sogni in celluloide. Entrambi muovono i primi passi, come il film racconta, nella redazione della rivista umoristica “Marc’Aurelio”. Il prosieguo li mostra già affermati e quindi anziani, tuttavia mai privi di curiosità quando incontrano alcuni dei personaggi della filmografia felliniana, per esempio la prostituta di La dolce vita con un’eco di Le notti di Cabiria.

Il film mescola episodi ricostruiti nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, “la casa di Fellini” dove aveva persino un appartamentino per riposarsi e imbandire spaghettate, con immagini di repertorio, stralci dei capolavori felliniani o delle interviste che generosamente concedeva con la sua vocina spesso reticente o menzognera su questo o quell’argomento. Non manca la chicca degli esilaranti e un po’ crudeli provini cui si sottoposero Sordi, Gassman e Tognazzi quando Federico si apprestava a girare il suo Casanova a metà anni Settanta. In verità, ha detto ieri Scola a Venezia, Fellini aveva già scelto Donald Sutherland quale protagonista mentre Marcello Mastroianni, amico di sempre, se la prese perché non fu chiamato (avrebbe interpretato in seguito il Gran Seduttore in Il mondo nuovo dello stesso Scola).

Dal film Fellini emerge per quel che era da bambino e restò sino alla fine: un sempiterno Pinocchio, nonostante i cinque premi Oscar vinti e l’affetto della gente che in lui intravide un riscatto simbolico dell’Italia perbene. Ed è davvero degno di Collodi il finale di Che strano chiamarsi Federico: durante l’estremo saluto che i romani tributarono a Fellini sfilando per tre giorni davanti al feretro, il morto rivive e scappa, inseguito da due carabinieri in alta uniforme fra le scenografie di Cinecittà. Intanto impazza il girotondo circense, ritmato dalla marcetta composta dal “nostro” Nino Rota per la passerella di 8 ½, con i fotogrammi dei suoi film montati via via più velocemente. Da Luci del varietà a Lo sceicco bianco, da I vitelloni a La strada, all’iconica angelica e sensualissima Anitona di La dolce vita e Le tentazioni del dottor Antonio, dal Satyricon a Roma, Amarcord, Prova d’orchestra, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, fino a La voce della luna.

“È una festa la vita, viviamola insieme”, concludeva Mastroianni regista in crisi di 8 ½, giusto mezzo secolo fa. Ettore Scola è d’accordo: la sapienza attinge all’innocenza e alla marachelle del bambino, la vecchiaia danza a passo di gioventù. Che strano chiamarsi Federico è un piccolo capolavoro e ha commosso anche noi.

 (Pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 7 settembre 2013)

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