Chi arriva ultimo è scemo. Perché da piccoli abbiamo detto almeno una volta questa sciocchezza? Sarà meno veloce, meno allenato, meno muscoloso, meno abile, ma non necessariamente scemo. Da grandi non lo si dice più, ma lo si pensa spesso di chi perde le elezioni, di chi non fa carriera, di chi non riesce a salire sul bus, di chi non cambia coda al casello o alla cassa. Qualcuno ritiene che questo modo di pensare dipenda dalla eccessiva competizione che caratterizza la vita sociale; quella di oggi o anche quella di ieri? Probabilmente si è sempre pensato si tratti di una caratteristica della vita sociale di un determinato momento, ma lo si è pensato in ogni momento.
Duemila anni fa, lamentando che pretendano di essere poeti anche persone che non se lo meritano affatto, Orazio scrive: Ma oggi basta dire: i versi che scrivo sono meravigliosi. / Peggio per gli ultimi; restare indietro è vergognoso, / come confessare che, non avendo studiato, troppe cose non so. E il peggio per gli ultimi è assai più violento di quanto si diceva da piccoli: occupet extremum scabies (Ars poetica, v. 417). Forse anche i tempi di Augusto erano troppo competitivi ed essere ultimi era tanto disonorevole da venire accostato alla rogna.
Duemila anni dopo, pochi giorni fa, il pontefice, parlando dell’ambizione di soldi e potere che sporca la vita della chiesa, ricorre ancora alla metafora dell’arrivare prima, davanti agli altri: non si risparmia mai come arrivare: le chiacchiere, sporcare gli altri … L’invidia e le gelosie fanno questa strada e distruggono … siamo tentati di distruggere l’altro per salire su (17/05/2016). Oggi, solo oggi?
A metà strada, nella storia che ci separa da Orazio, un intellettuale del XII secolo, Giovanni di Salisbury, frequentatore delle scuole e delle corti del suo tempo, segretario di quell’arcivescovo di Canterbury – Tommaso Beckett – vittima dell’assassinio nella cattedrale, riprende la solita immagine e proprio per descrivere i vizi della chiesa contemporanea. Credi pure che quel detto poetico: “l’ultimo lo colga la peste”, vale come la voce che per tutti fa risuonare il banditore: tutti non fanno che battersi come nella gara di uno stadio e ciascuno non mira che a evitare che l’altro riesca ad afferrare l’episcopato sicché, almeno nei desideri, c’è più abbondanza di vescovi di quanti ce ne siano effettivamente (Policraticus 7.19, trad. U.Dotti, Aragno 2011, p. 1385).
Ma allora è sempre così, e la società non va definitivamente in rovina solo perché qualcuno, facendo finta di non avere capito che è sempre così, dice che non sempre, ma solo oggi, è così.
Non posso fare a meno di citare una fantastica traduzione di Orazio in dialetto milanese dovuta a Giovanni Rajberti, medico e poeta dell’Ottocento, che in questo modo rende i versi di Orazio: Per mi a confessamm asen no me pias, / Né vuj che mai nessun me bagna el nas.
L'ASINO DI BURIDANO