LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

E se Santa Sofia diventasse simbolo di pluralismo?

Fatti

Sabato 26 maggio scorso, un gruppo di uomini e donne appartenenti ad un’associazione di giovani musulmani ha messo in scena una preghiera collettiva davanti a Santa Sofia, ad Istanbul. Rigorosamente separati tra loro, come riportano le agenzie di stampa, hanno invocato la riapertura di Santa Sofia al culto islamico. La settimana dopo si sarebbe celebrato l’anniversario della conquista di Costantinopoli nel 1453, e la stampa occidentale ha interpretato il fatto come un segno, l’ennesimo, della strisciante re-islamizzazione dell’agenda politica turca da parte del governo Erdoğan, non a caso tollerante verso atti simbolici di questo genere.

L’episodio, del resto, non giunge nuovo. Non è certo la prima volta che Santa Sofia è al centro di polemiche, da quando nel 1934 fu trasformata in museo per precisa volontà di Mustafa Kemal Atatürk, che in questo modo statalizzava – in nome di una certa interpretazione della laicità – quello che era stato per 1123 anni un simbolo della cristianità e, dopo il 1453, per altri 481 anni un simbolo dell’Islam.  Da allora, dal 1934, periodicamente si assiste a prove di forza ora da parte di gruppi di pressione cristiano ortodossi (si veda ad esempio http://www.freeagiasophia.org/), ora da parte di gruppi più o meno radicali islamici, che ne rivendicano la riapertura al culto rispettivamente come chiesa o come moschea. Il tema è stato agitato strumentalmente in passato anche da gruppi politici, soprattutto da Necmettin Erbakan, finendo per assumere un valore simbolico rilevante. Ma lo statuto di Santa Sofia come museo non è oggi in questione, si affretta a sottolineare anche il Ministro della cultura di Erdoğan, benché si tratti di un luogo nato per ‘servire Dio’.

E questo è un punto che, in effetti, al di là dell’uso strumentale che ora gli uni ora gli altri possono fare dello statuto di Santa Sofia, merita di essere pensato. È  giusto che Santa Sofia sia un museo?  È giusto che le differenze religiose siano anestetizzate e trasformate in merce per turisti o (solo) in bene per i cultori di uno straordinario patrimonio artistico dell’umanità? In Turchia, e non solo in Turchia, molti pensano di si. Pensano che sia l’unico modo per sottrarla al fanatismo degli ultimi o degli altri, e che sia e debba rimanere un simbolo della laicità del paese. Personalmente, dissento. Personalmente accolgo totalmente spirito e lettera delle parole di Hrant Dink, il giornalista turco-armeno ucciso il 19 gennaio del 2007 a Istanbul (http://www.caffeeuropa.it/index.php?id=2,679): “Se il musulmano considera un culto sacro pregare in quel luogo, se il cristiano avverte come un bisogno sacro recitare una preghiera in quel luogo, perché no? Non sono in grado di fornire una soluzione tecnica, ma immaginate una Turchia in cui sia il cristiano sia il musulmano possano esercitare gli atti del loro culto nella loro Santa Sofia, e pensate per una volta al riflesso di questo fatto nel mondo. Quella che chiamate multiculturalità accoglierebbe favorevolmente una realtà del genere. Multiculturalità non è trasformare un luogo di culto in un museo in nome della laicità, è rispettare le persone devote  e tenere aperti i luoghi di culto per loro” (H. Dink, L’inquietudine della colomba, Guerini e Associati, p. 65).

Forse non sono tanti in Turchia a pensarla così oggi, ma tra loro ci sono opinionisti influenti, espressione di posizioni culturali anche molto diverse; c’è Mustafa Akyol, voce di un Islam liberale, che immagina Santa Sofia aperta il venerdì per il culto Islamico, la domenica per quello cristiano, e il resto della settimana per i turisti e gli amanti dell’arte; e c’è Orhan Kemal Cengiz, avvocato impegnato nella difesa dei diritti civili, democratico radicale, che nel corso di un’intervista non smette di dirmi “sarebbe fantastico, sarebbe fantastico”. Si, sarebbe fantastico, se una delle speranze di Hrant Dink diventasse realtà, se Santa Sofia potesse diventare simbolo di una Turchia pluralista, che riconosce e tutela allo stesso modo identità religiose diverse e identità laiche; ma molto più, come diceva Hrant Dink, pensate per una volta al riflesso di questo fatto nel mondo, in Europa: un’Europa preda di pulsioni intolleranti, della paura, del razzismo, della chiusura, dalla Svizzera alla Grecia. Si, sarebbe fantastico.

  1. grazie mille per la sua risposta, che in gran parte condivido (io pero’ parlerei di stato post-laicista, piu’ che di stato post-secolare). se mi indica un suo recapito (anche in privato il mio lo trova sul blog) posso inviarle questo articolo completo e anche un altro: e ovviamente mi piacerebbe scoprire qualcosa in piu’ del suo lavoro…

    • Grazie della segnalazione, dell’articolo e dei rimandi. La situazione turca, per come la vedo io, è estremamente complessa, e i processi in corso di democratizzazione, apertura di spazi di pluralismo, e creazione di una società polifonica (e per quel che mi interessa di più, postsecolare) non sono privi di ambiguità, battute d’arresto, limiti e contraddizioni. Rimane però il fatto che trattasi di un laboratorio di straordinario interesse, per la Turchia in sé, certamente, per lo scacchiere regionale (si pensi alle ore che vive l’Egitto), e per l’Europa stessa. Vero, la realtà turca è forse ancora poco nota (non ai lettori di Reset o a quelli di Istanbul, Avrupa), travisata, e il lavoro da fare molto. Santa Sofia è ‘solo’ un caso, un simbolo appunto, ma la Turchia presenta molti altri casi simili, di cui si sa poco, e da cui ci sarebbe da imparare molto. Buon lavoro.

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