La televisione italiana compie sessant’anni domani. C’era una volta (solo) la Rai e il 3 gennaio 1954 dette avvio alle trasmissioni e, di fatto, a una nuova era. Dopo le miserie post-belliche, quella data costituì l’antefatto del cosiddetto «boom» o miracolo economico, al clou tra il 1959 e il 1963. Senza la Tv non sarebbero state possibili l’impressionante crescita dell’economia e la trasformazione sociale e addirittura antropologica del Paese: esodo dalle campagne ed emigrazione dal Sud verso il Nord, industrializzazione, alfabetizzazione di massa, americanizzazione dei costumi e dei consumi. «Sviluppo senza progresso», avrebbe accusato Pasolini, acerrimo nemico del piccolo schermo e dell’omologazione che induceva nel «suo» amato popolo. Che il poeta avesse torto o ragione, resta innegabile l’impeto faustiano messo in campo dalla televisione, che travolse e distrusse persino la memoria dei residui Filemone e Bauci, ovvero dell’idilliaco mondo di ieri, inerme rispetto al Mefistofele catodico.
Tutto è cambiato da allora. Centinaia di libri e film raccontano la rivoluzione del Belpaese cresciuto con la Tv. Di più: da un paio di decenni in qua, l’Italia addirittura si specchia nella televisione dando vita a una sorta di ininterrotto reality show. Finzione e realtà si confondono, platea e palco coincidono, spettacolo e cronaca diventano sinonimi: da Sarah Scazzi a Meredith, dalla «mamma di Cogne» al naufragio della Costa Concordia. La politica non è indenne, anzi reclama e ottiene un primato televisivo che la nutre e la snatura al tempo stesso. Pensate solo alla singolare coincidenza per cui i tre principali leader italiani di oggi possono parimenti considerarsi figli della Tv. Beh, Berlusconi ne è anche un po’ padre (e madre, fratello, amante), avendo concepito le reti commerciali alla fine degli anni Settanta con l’ausilio dello stesso Mike Bongiorno che aveva accompagnato i primi passi della Rai. Senza la Tv l’imprenditore Berlusconi non sarebbe mai «sceso in campo» e la storia d’Italia avrebbe assunto – forse – un corso differente. Ma anche il segretario del Pd Matteo Renzi fu svezzato in pubblico da Mike: partecipò nel 1994 – aveva diciannove anni – ad alcune puntate di La ruota della fortuna e vinse una cinquantina di milioni di lire in gettoni d’oro. Mentre Beppe Grillo, guida del Movimento 5 Stelle, venne lanciato da Pippo Baudo in vari show dal 1977 in avanti, prima di approdare a Sanremo e al protagonismo assoluto di Te la do io l’America (1981). Fin dal titolo, la cifra di Grillo era l’invettiva e tale è rimasta con notevole efficacia, piaccia o meno. Né si può dire che Grillo abbia «scoperto» la politica in tempi recenti col suo blog, visto che già nel 1986 a Fantastico 7, sfoderò una caustica battuta anti-Craxi. Costò a Grillo l’allontanamento dal piccolo schermo, sebbene non proprio una messa al bando come quelle toccate a Dario Fo e in seguito a Enzo Biagi o a Daniele Luttazzi.
Si vede come la Tv si intrecci con la nostra storia, nel bene e nel male. Un groviglio spesso ineffabile. Basti pensare all’apporto di Renzo Arbore che da L’altra domenica a Quelli della notte e Indietro tutta!, fra i Settanta e gli Ottanta, svecchiò abitudini, lessico, relazioni interpersonali. Era l’Italia della «riforma» della Rai, del «secondo canale» e del direttore di rete Massimo Fichera che lanciò anche Onda libera di Benigni e Portobello di Tortora. In seguito il raffinato letterato Angelo Guglielmi, nominato direttore di Raitre, avrebbe puntato sulla «Tv verità» memore di certi scanzonati giochi delle neo-avanguardie e non indenne da responsabilità nel propiziare il Real Italy Show di cui sopra: Avanzi, Samarcanda, Blob, Telefono giallo, Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura… Intanto erano all’opera e sempre più forti le reti Mediaset, baldanzose sul mercato pubblicitario che – ennesima anomalia italiana – mortifica la stampa a vantaggio della Tv. Nell’ultimo decennio si è infine affermata la pay tv e oggi tocca alle interazioni fra il web e la televisione «tradizionale», mentre l’offerta cambia rapidamente (chessò, le serie americane vantano schiere di adepti anche da noi).
Provate a raccontare a un bambino della televisione che fu: un canale unico, il film una o due volte alla settimana, a letto dopo Carosello. Vi ascolterà incredulo, magari incantato. Poi, un attimo dopo, riporterà lo sguardo sul display dello smart phone o verso lo schermo del computer o sul telecomando di Sky. Anzi, realisticamente, verso tutti e tre. Le visioni multiple sono il suo mondo, anzi, sono il mondo, il paesaggio «naturale» dell’esperienza. È il contesto dell’homo videns di cui scrisse Giovanni Sartori (Laterza ed., 2000), a svantaggio dell’homo sapiens. Rispetto a quel lontano 3 gennaio 1954 la sappiamo infinitamente più lunga, eppure – paradosso – abbiamo la vista più corta.
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 gennaio 2014