Quando Barack Obama ha deciso il ritiro americano dal Medio Oriente senza avervi saputo impegnarsi per realizzare con i suoi interlocutori locali un inizio di Stati di diritto, i conflitti subito scatenatisi con epocali conseguenze hanno creato le condizioni perché lo Stato di diritto finisse sfidato dal tribalismo anche in Europa. E siamo noi europei a sfidarlo, per paura del tribalismo altrui. È questo il motivo principale per cui un continente che è stato socialdemocratico oggi è sovranista, con un impianto politico populista. Le conseguenze del ritiro americano vanno capite, soprattutto considerando che è esso è apparso la risposta all’ultima deriva dell’imperialismo americano, quello di impianto teo-con, ma ha prodotto una revisione della Nato che si pensa gendarme della democrazia ma forse è gendarme di un’ “etnia occidentale” in difficoltà. Per me siamo al cuore della nuova guerra mondiale a pezzi che ha intuito e denunciato Bergoglio. Ma più che ripetere a pappagallo quanto lui ha detto e dice varrebbe la pena provare a capirlo, apparendo l’unico che capisce dove vada il mondo.
Ecco perché non è saggio ignorare il consumarsi nella nostra pur comprensibile distanza dell’ennesima dimostrazione dell’impossibilità in questa fase di guerra mondiale a pezzi di far coesistere la cooperazione tra Stati e l’aiuto umanitario internazionale. Un grave indizio delle drammatiche conseguenze dell’attuale mancanza di un ordine mondiale si può scorgere nella nuova paralisi dell’ONU sulla Siria, della quale non si parla perché la Siria faceva notizia quando c’erano i “barbudos” di al-Baghdadi, il nemico perfetto per dare copertura alle malefatte di Assad. La nuova agognata guerra fredda, l’ordine manicheo, si materializzava con perfezione: la “barbarie islamica” o i suoi “nemici”, chiunque essi fossero. Per i barbari era un sogno, la conquista di praterie impensabili. Per fortuna la forza dello stare con il mondo e non contro il mondo del “popolo islamico”, violentato dall’Isis, lo ha impedito e il Documento sulla Fratellanza Umana di Abu Dhabi firmato dall’imam di al Azhar con Papa Francesco ha dato a questo rifiuto una bandiera.
Poi è accaduto che negli ultimi anni l’ONU non abbia saputo parlare il linguaggio di quel documento, firmato nel 2019, ma abbia dovuto (dovuto?) accettare i termini imposti dagli Stati, cioè dai vincitori, Russia e Siria, riducendo da quattro a uno soltanto i corridoi che sin lì consentivano l’accesso via terra dai paesi confinanti degli aiuti umanitari internazionali alla popolazione civile che sopravvive nei territori siriani che non sono ancora tornati sotto il controllo del regime siriano. Lì, a pochi chilometri dall’invalicabile confine turco vivono addirittura quattro milioni di persone, tre dei quali lì deportati da Assad quando riconquistò militarmente, con il sostegno di russi e iraniani, i territori dove costoro vivevano. Siriani deportati in Siria. E sottoposti al fuoco siriano che vuole riconquistare il controllo militare di quei territori, consegnati dallo stesso Assad a gruppi jihadisti, che proprio lì decise di trasferirli, con comodi autobus, quando le operazioni militari in altre aree del Paese volsero a suo favore. Il modo migliore per giustificare la sua guerra per una piena riconquista siriana nel nome della lotta al terrorismo.
Le numerose manifestazioni di protesta contro le vessazioni cui questi gruppi sottopongono ancora la popolazione civile non hanno mai scaldato il cuore del mondo. Il massimo che possono auspicare è di ricevere acqua potabile, alimenti essenziali e medicine dalle agenzie umanitarie dall’ONU. Ma da anni Damasco, con il sostegno di Mosca e Pechino nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, richiede che quegli aiuti non entrino nei territori in oggetto con camion gestiti dall’ONU e dalla Turchia. No. Dovrebbero arrivare da Damasco, visto che quella terra è ufficialmente Siria. E gli aiuti sono destinati alla Siria perché la cooperazione è tra Stati. È tecnicamente così, sulla carta non si può negare che Damasco abbia ragione. Ma anche Assad e i suoi amici russi, iraniani e cinesi hanno difficoltà a sostenere che chi bombarda un territorio dovrebbe portarvi aiuti umanitari per le vittime dei suoi bombardamenti. E così, dopo estenuanti balletti tesi prima a ridurre il numero dei valichi e poi i mesi di vigenza dell’eccezione alla regola della cooperazione tra Stati, l’accordo è stato sempre rinnovato. E’ andata così anche dopo il violento sisma di inizio anno, che ha colpito proprio nella disperata e affollatissima Siria fuori dal controllo di Assad con più forza. Come accade da anni, anche dopo il terremoto si sono ridotti i varchi di transito e il tempo di durata dell’eccezione; a febbraio infatti si è strappata un’estensione dell’accesso degli aiuti via terra dalla Turchia bypassando ancora Damasco, ma solo fino al 10 luglio di quest’anno: cioè per pochi mesi. Quando la fatidica data è arrivata Mosca e Pechino hanno opposto il veto all’estensione del transito via terra per altri novi mesi: troppi. La richiesta dall’Onu era stata inizialmente di estendere per un anno, ma ridurre a nove non è bastato. Dopo il veto Mosca ha proposto al Consiglio di Sicurezza di estendere per sei mesi, aggiungendo questa volta una novità: significative restrizioni di ciò che può passare e di come può essere trasportato. Nessuno ha accettato. Così ora si spera che nuovi negoziati nelle prossime ore aiutino a risolvere un problema che il mondo non dovrebbe poter tollerare: lasciar morire di sete e di malattie 4 milioni di persone, moltissimi ovviamente i bambini, che hanno il solo torto di essere nati in territori siriani che hanno detto di no ad Assad. Nessuno di questi civili, anche questi va considerato, ha mai imbracciato armi. Sono considerati nemici del regime perché non risulta che decenni fa le loro tribù di origine abbiano baciato la pantofola del raìss.
Si troverà un accordo? I più ne appaiono convinti, anche se ormai sono passate molte ore dalla scadenza dei termini fissati dall’ONU stessa. Si tratterà ancora? Ovviamente sì, ma prevederlo non basta. Bisogna capire su cosa si tratterà.
Non si tratterà sul diritto di negare i diritti umani altrui, per altro in assenza di alcun reato. Non sussistono le condizioni per ottenere un rispetto globale dei diritti umani da tutti riconosciuti ufficialmente come innegabili. Si tratterà invece sull’impossibilità dello Stato di affrontare “un’emergenza”. A questo si cercherà di porre rimedio; è qui il vero oggetto della discussione.
Il caso siriano è il più evidente caso di un governo in guerra con la sua popolazione, per motivi principalmente di fedeltà personale al leader. Ma il problema ormai si pone in diversi territori. Basti citare il caso del Sudan, ad esempio, dove l’esercito nazionale in lotta con ribelli fa stragi di civili in territori ritenuti ostili, o della Birmania, o dell’ Afghanistan, o della Libia, e molto altro ancora.
Dopo la fine della guerra fredda e dei suoi blocchi si è pensato a un ordine unipolare, l’epoca americana. Ma dopo l’invasione dell’Iraq gli Usa non hanno valutato la loro incapacità di creare davvero un ordine loro, quanto la mancanza di risorse economiche per imporlo e gestirne l’imposizione. La strategia obamiana di ritirarsi dal Medio Oriente, lasciando i cocci dell’invasione americana dell’Iraq alla popolazione locale, ha avviato una concorrenza famelica e spietata tra imperi o aspiranti tali, russo, cinese, turco e iraniano, tutti interessati a conquistare lo spazio che gli Usa abbandonavano. Mosca è apparsa la forza emergente, la più interessata a una espansione militare, che ha saputo usare o essere usata da Cina e Iran. I risultati sono devastanti; l’altrettanto delirante modalità del ritiro americano dall’Afghanistan, occupato dopo il 2001, ritiro deciso da Trump trattando direttamente con i talebani e realizzato da Biden, ha esteso da Beirut a Kabul i confini di un pezzo del nuovo conflitto mondiale emerso nelle terre del ritiro americano.
Occorre pensare a una governance per queste aree ridotte in macerie da miliziani, narcotrafficanti, servizi segreti, mercanti di armi e di schiavi, oppure si estenderà l’oscura cloaca dove imperialismi gestiti da capi tribali si alleano per poi combattersi, rendendo possibile ogni complotto. Gli effetti di questa natura della terza guerra mondiale sono evidenti in altri territori ormai allo sbando soprattutto in Africa: Chad, Repubblica Centrafricana, Mali, Etiopia, Eritrea, Somalia, sono i casi più noti. Non c’è più corrispondenza tra Stato, esercito e popolazione nazionale in nessuno di questi Paesi. Torna in mente la celebre frase di Sant’Agostino: “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”
Le ideologie che sostengono i tre imperialismi espansivi asiatici, russo, iraniano e turco, sono simili. Si tratta dell’impero etnico del mondo russo di Putin, il pan turanismo (pan turchismo) di Erdogan che sogna ( o ha sognato) di estendersi fino alla Cina, il disegno imperiale persiano (etnico dunque) fino al Mediterraneo nel nome della rivoluzione khomeinista.
Siccome gli orientamenti elettorali europei dimostrano che in un’epoca così inquietante anche noi avvertiamo l’urgenza di abbandonare lo Stato di diritto e rifugiarci nelle certezze delle regole claniche dei briganti per difenderci, forse sarebbe il caso di fermarsi per tempo, e pensare a un nuovo ordine che ci salvi dall’ universalizzazione della guerra tra Stato, bande e diritti.
La nuova Nato gendarme della democrazia nel mondo ci illude di difenderci dai briganti, ma in realtà si piega alla visione etnicista. La Siria è solo il campo di gioco dove tutti i protagonisti di questo conflitto si contendono la terra di collegamento del blocco eurasiatico. D’altronde già Alessandro Magno aveva capito che la Mesopotamia è l’ombelico del mondo, o almeno del nostro mondo eurasiatico .
Obama prima di andarsene dal Medio Oriente, anche giustamente, avrebbe dovuto pensare a cosa sarebbe successo, dopo il suo disordinato ritiro, nell’ombelico del mondo eurasiatico. Perché è da quel fallimento che è cominciata la crisi della “nostra idea di mondo”. Le colpe dei padri ricadono sempre sui figli, come ammettiamo sempre quando parliamo dell’’indebitamento che lo Stato fa oggi lasciandone le conseguenze sulle generazioni future.