IL SOTTOSCRITTO

Gianni Bonina

Giornalista e scrittore. Vive a Modica. Ha pubblicato saggi di critica letteraria, romanzi, inchieste giornalistiche e reportage. È anche autore teatrale. Ha un blog all'indirizzo giannibonina.blogspot.com

Salvini non è re Pelasgo

Al processo di Palermo contro Matteo Salvini si scontrano due concezioni opposte che, riguardando la coscienza personale, appaiono inconciliabili. Da un lato la ragione di Stato, storicamente fondata su un riconosciuto principio internazionale messo in capo a un governo tenuto a garantire la sicurezza della nazione anche attraverso iniziative giuridicamente illegali. Da un altro il diritto umanitario fondato sulla Dichiarazione universale dei diritti umani e tale da implicare un dovere al rispetto della persona che chiama innanzitutto un governo al suo adempimento. Le due sfere, quella collettiva e quella individuale, società e privato, possono trovare un punto di conciliazione solo se una prevale sull’altra dopo che sia stabilito qual è prioritaria. Questa decisione non può essere presa caso per caso secondo criteri di opportunità o politici ma deve valere come elemento fondamentale e programmatico in vista di ogni fattispecie. Entrambe le scelte sono legittime e conducenti perché tutelano valori diversi ma di uguale interesse generale. Ma non possono essere adottate né insieme né parzialmente, praticando una loro compensazione. Il ministro degli Interni Salvini in sostanza non poteva impedire lo sbarco in Italia di migranti clandestini perseguendo nello stesso tempo la politica governativa intesa a impedire nuovi arrivi col tenere i porti chiusi, così come non poteva permettere che eccezionalmente la Open Arms approdasse, per via di molti suoi passeggeri in condizioni da richiederne l’immediato soccorso, proponendosi di non rilasciare altri permessi, senza che ciò svilisse l’azione di governo e creasse un conflitto di trattamenti.
Nelle loro requisitorie i magistrati del pubblico ministero, per affermare il principio che la responsabilità penale è sempre personale ed escludere dunque lo spirito di collegialità di governo, hanno insistito sulla singolarità dell’azione intrapresa dal ministro, che sarebbe stata volta ad ottenere un consenso politico a favore del suo partito. Senonché, anche quando i singoli ministri si oppongano all’iniziativa di un altro membro del governo, per il fatto che un ministro impegna sempre il governo, ne discende che ognuno di loro esercita un potere che trova nello stesso esecutivo il suo fondamento, giacché una reale contrarietà di un ministro nei confronti della decisione di un altro non può esprimersi che con le sue dimissioni a motivo della disapprovazione di un atto che promana invero da propedeutiche linee di governo di cui titolare e garante è il premier, che può (non condividendo l’azione di un suo ministro) procedere all’esautoramento. Nel caso di Salvini, è in realtà successo che due ministri abbiano negato l’assenso al fermo della Open Arms, ma non è successo che si siano dimessi né che Giuseppe Conte abbia chiesto o solo ventilato il disimpegno del leader leghista. Il quale ha perciò agito con il consenso dell’intero gabinetto ancorché il decreto fosse stato approvato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti insieme con il ministro dell’Economia e delle Finanze. Salvini, ministro degli Interni, ne fu solo proponente e ispiratore, ma trovò nel varo del provvedimento la condivisione automatica e necessaria dell’intero governo.
Può certamente il decreto interministeriale essere messo in discussione, ma non si può fare una colpa al ministro che lo applichi con il massimo rigore e ogni zelo, fino pure all’accanimento. Accusare Salvini di avere sequestrato 147 persone è come imputare a un generale la morte di altrettanti soldati “nemici” uccisi al fronte dai propri. Così come se non si vuole che giovani in armi cadano in battaglia bisogna abolire la guerra, allo stesso modo se non si voleva che Salvini impedisse l’attracco della Open Arms e di altre Ong occorreva che il 12 novembre 2019 non venisse emanato il decreto.
Quel provvedimento rispondeva al principio latino “ad impossibilia nemo tenetur”. Nessuno può farsi carico di un problema irrisolvibile. Lo scrittore polacco Witold Marian Gombrowicz riporta il caso di chi sulla spiaggia vede decine di tartarughe capovolte e si premura di rimetterle in sesto per renderle libere, finché scopre alzando la testa che l’intera spiaggia è piena di tartarughe impossibilitate a muoversi, sicché va via lasciandole al loro destino. Essendo stati nel 2018 circa 25 mila gli sbarchi clandestini di immigrati tutti accolti in Italia, l’anno successivo il governo intervenne chiudendo i porti e abbandonando in mare quelli che sarebbero venuti, a cominciare dai passeggeri della Open Arms. Fu una scelta scellerata o giustificata? L’uomo di Gombrowicz va giudicato insomma per quello che ha fatto o per quanto si è rifiutato di fare? Il caso Salvini è tutto in questo interrogativo, che solleva una questione già presente nell’antica cultura greca, dunque assai remota e connaturata alla stessa condizione umana.
Ne “Le Supplici” di Eschilo le cinquanta Danaidi in fuga per mare dall’Egitto chiedono come profughe ospitalità alla città di Argo, nelle cui acque re Pelasgo le tiene ferme prendendo tempo se accoglierle in obbedienza al credo greco per il quale l’ospitalità agli stranieri è un obbligo voluto da Zeus, ma condizionato alla libera decisione se rischiare la “contaminazione”. In un primo momento re Pelasgo non sa se dover decidere da solo o rivolgersi all’assemblea del popolo, per cui il Coro gli dice: “Tu sei il consiglio, capo non soggetto a controlli”, una visione della politica che ritroviamo oltre vent’anni dopo in Antigone di Sofocle quando re Creonte dice al figlio: “Sarà la città a ordinarmi ciò che devo fare? Sono io o un altro che deve comandare su questa terra?”. Sono i prodromi e i caratteri della tirannide. Allora Pelasgo prima si dice: “Non posso permettere che un giorno il popolo dica che per onorare degli ospiti ho rovinato la città”, contaminandola con sangue straniero, ma infine prende la sua decisione: “Senza il popolo non agirei, neppure da padrone” e vuole che a votare l’accoglienza sia l’assemblea, che dice sì.
Re Pelasgo si rivolse al Paese se prendere un’iniziativa capitale, il governo Conte invece volle fare da solo, lasciando poi solo Salvini, artefice dell’operazione. Non doveva certo indire un referendum, ma riflettere sul fatto che indirizzi politici così delicati e potenziali detonatori, com’è stato, di micidiali scontri di opinione (non diversi da dilemmi quali aborto e divorzio che investono in pieno la coscienza nazionale) andavano condivisi con una maggioranza parlamentare molto ampia, così da avere il Paese a sostegno. Si mosse invece unilateralmente e improvvidamente, finendo pure per fare lo scaricabarile davanti al tribunale, ed oggi tutti i nodi sono venuti al pettine quando nessun nodo sarebbe dovuto nascere.

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