Un fatto storico è avvenuto in televisione. Per la prima volta la trasposizione televisiva riesce decisamente preferibile al romanzo da cui è tratta. Di solito il film più riuscito perde moltissimo rispetto al libro. estremamente più ricco. Stavolta invece la serie Tv “Rocco Schiavone”, ancorché fedele nella fabula al testo scritto, è di gran lunga migliore del ciclo di cui autore è Antonio Manzini, peraltro cosceneggiatore, ma evidentemente solo di rappresentanza. Migliori sono innanzitutto i dialoghi che nei romanzi e nei racconti sono elementari, scontati, teatrali e recitati, mentre in Tv appaiono più naturali; migliori sono i protagonisti che hanno una maggiore coerenza nella trasposizione e caratteri meglio definiti; migliore è la concitazione dei fatti che in Manzini soffrono di digressioni molte volte stucchevoli e di una ricerca di spirito che sente dell’attore ma non dell’autore. Il vicequestore televisivo ha una dolenza che non ha quello letterario: più composto, meno elettrizzato, più sensibile e umano. Alla spinta di quello manziniano a comicizzarsi risponde quello del regista e forse più ancora dell’interprete che ne fanno un personaggio gravido di un’amarezza che fa da contrappunto alle sortite ilari e farsesche in cui tuttavia inclina molte volte a cadere, determinando forse un contrasto così marcato da fargli perdere aderenza con se stesso e un po’ snaturandolo.
Ma se la serie Tv è migliore dei romanzi, questo non vuol dire che meriti del tutto il boom di ascolti registrato e la preferenza alla miniserie “Solo” di Canale 5, giunta alla seconda puntata e forse già da considerare la migliore dell’anno per tenuta della trama, successione dei rivolgimenti, adesione al dato di realtà, ricerca del colpo di scena, interpretazione collettiva e originalità. Originale non può infatti dirsi “Rocco Schiavone” che appare un rifacimento senza molti sforzi de “Il commissario Montalbano”. Manzini ha duplicato Camilleri portando il suo vicequestore agli antipodi della Sicilia, ad Aosta, ma vestendogli addosso lo stesso abito di burbanza, incostanza, inquietudine, spirito di indipendenza e vocazione all’irriverenza. Come Montalbano, anche Schiavone ha una cattiva fama nella polizia, è irriguardoso nei confronti del questore, usa un linguaggio ai limiti della buona educazione, tratta i sottoposti con spocchia, viola bellamente la legge in nome di una giustizia naturale e più umana, è facile preda di cuori femminili, non ha moglie ma una fidanzata e svolge le sue indagini con quei metodi – “piano d’azione” o “saltafossi” – che inducono a fare cadere in trappola i sospettati. In più conta tra gli amici anche delinquenti proprio come Montalbano e dialoga con lo spettro della moglie così come il protagonista di Camilleri si confronta con Montalbano Secondo. Ma a differenza del commissario di Vigàta, Schiavone non ama molto la tavola e quindi non ha una Adelina che gli prepari da mangiare, però predilige l’erba da fumare, mostrandosi così molto più eretico.
La squadra che lo circonda rispecchia poi quella di Montalbano: l’agente Italo Pierron è il doppio dell’ispettore Fazio, il duo Deruta-D’Intino sono il remake di Catarella, il medico legale Fumagalli è gemello del dottore Pasquano, così come della stessa macchiettistica pasta sono i sostituti procuratori dei due autori. Che si distinguono però come il sole e la luce. Camilleri è il gigante e Manzini il nano che cerca di scimmiottarlo e prova a imparare come si costruisce un giallo. Un modello che Manzini ha adottato senza rossore sin dal primo episodio è la concorrenza nello stesso romanzo di due o più vicende sulle quali Schiavone si trova a indagare, senonché mentre in Camilleri le diverse vicende tendono alla fine a congiungersi e risolversi in un unico scioglimento perché concatenate già all’inizio, in Manzini rimangono invece slegate fino alla fine e quindi implausibili. Nel confronto, se le trasposizioni televisive del ciclo letterario di Montalbano sfigurano di fronte ai romanzi, quelle di Schiavone su Raidue prevalgono sulla pochezza, anche linguistica e stilistica, dei testi di Manzini. Che nulla di nuovo ha perciò inventato: per cui si può ipotizzare con buona ragione che il successo della serie Tv sia dovuto alla reminiscenza inconscia che di Montalbano agisce sui telespettatori. La gente guarda Schiavone e vede Montalbano.
Nel goffo tentativo di dare un’identità autonoma al suo vicequestore, Manzini è ricorso a una tipizzazione che rende addirittura idiota il suo personaggio: il sussiego con il quale discerne gli eventi della vita secondo il livello di “rottura di coglioni” che procurano, una declinazione che si sente due o tre volte per episodio e che finisce per apparire davvero odiosa nonché segno di una evidentissima minorità letteraria.
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