Non è vero, come sostiene qualcuno, che la modifica dell’articolo 18 – almeno nella versione dello schema di decreto legislativo approvato dall’ultimo Consiglio dei Ministri dell’anno – non è traducibile in inglese. In effetti, la più grande battaglia politica ingaggiata nel suo primo anno di governo dal presidente del consiglio, sembra aver prodotto uno strumento pensato proprio per le esigenze degli investitori esteri che sono gli unici ad avere, teoricamente, le risorse per poter assumere giovani in imprese nuove e di medie dimensioni.
Rimane, però, vero che la riforma è meno organica di quello che ci si sarebbe aspettati dopo aver speso un capitale politico così ingente. Essa lascia fuori pezzi importanti del mercato del lavoro e, soprattutto, lascia fuori gli impiegati pubblici e ciò rischia di comprometterne l’efficacia perché sarebbe difficilissimo attrarre multinazionali in territori nei quali i servizi pubblici continuano a costare tanto e a funzionare assai poco. È vero che regolare la carriere di chi produce beni pubblici e li rende accessibili a tutti è diverso (lo è dappertutto) dal farlo nel mondo che ha come obiettivo la massimizzazione del profitto di un imprenditore privato. E, tuttavia, se il Governo non concentra, ora, tutta la propria energia su una riforma radicale dell’amministrazione pubblica, anche le altre riforme sono destinate all’irrilevanza.
In effetti, il mercato del lavoro italiano, di cui si lamentava un dualismo che produce incertezze e disuguaglianze, rischia di rimanere con la Legge del 10 Dicembre, spezzato in almeno cinque parti differentemente regolate. I lavoratori attuali, per i quali non cambia nulla (e, difatti, risulta non sempre comprensibile tanta agitazione da parte dei sindacati che, per definizione, difendono costoro) e che continueranno a costituire gran parte della forza lavoro delle imprese medio grandi che operano già in Italia. Quelli assunti dopo la legge e che quasi solo imprese straniere potrebbero avere la forza di assumere in massa. I collaboratori delle imprese più piccole e, a questo proposito, non si capisce perché – se l’idea era di essere complessivamente più giusti oltre che più efficienti – non sia esteso anche ad esse il divieto di licenziamento discriminatorio. I giovani e meno giovani in cerca di prima occupazione che continuano a rimanere senza alcuna assistenza, laddove, sia la nuova “assicurazione sociale”, sia il contratto di ricollocazione riguardano solo chi ha perso un lavoro e, peraltro, sulla formazione sarebbe indispensabile un intervento molto più drastico che leghi il compenso dei formatori al risultato ottenuto dal formato. Infine, rimangono un mondo separato – e finora totalmente illeso – gli impiegati pubblici. Per i quali è impossibile il licenziamento anche quando essi sprecano risorse in maniera persino trasparente danneggiando tutti; ma anche una promozione, laddove, essi riescono – non in pochi casi – a fare molto meglio dei propri colleghi a parità di risorse e di vincoli.
Era dagli impiegati pubblici che bisognava partire. Dalla riforma che lo Stato fa di se stesso. Prima di intervenire, con maggiore credibilità, su un’economia schiacciata dal costo di quello Stato sotto forma di tasse. Era dall’amministrazione che un marziano di buon senso – ignaro dei fili di alta tensione che scorrono nei palazzi del potere – avrebbe cominciato il grande cambiamento. Dopo aver letto i numeri sul macigno del debito pubblico. Ma anche quelli sulla spesa corrente cresciuta negli ultimi tredici anni del 25% mentre il PIL è rimasto completamente fermo (e nonostante almeno tre tentativi di “revisione” resi, però, marginali proprio dal vincolo iniziale di non poter toccare i dipendenti). E, soprattutto, dopo aver preso visione delle statistiche (comodamente disponibili sul sito dell’ISTAT) sul declino della qualità di servizi che sono essenziali e che un’amministrazione – condannata essa stessa all’obsolescenza dalla impossibilità di assumere nuove persone e liberarsi di dirigenti superati dal tempo – non riesce più a fornire.
Del resto, anche gli investitori esteri mettono in cima alle anomalie italiane, quella del fisco e quella della giustizia. Un fisco semplice – ancor prima che meno costoso – che sia in grado di restaurare un rapporto di fiducia tra imprese e Stato. E una giustizia in grado di ristabilire rapporti civili tra imprese impegnate in una concorrenza che deve avere regole certe. E, tuttavia, come si può convincere le imprese che pure possono apprezzare le novità di un JOBS ACT che – in inglese – li metta nella condizione di calcolare quanto costa un eventuale licenziamento, se non disegniamo – subito – i meccanismi che rendano i dipendenti pubblici che amministrano la giustizia concretamente responsabili dei tempi di una causa (magari di lavoro) e quelli che accertano e riscuotono le tasse sistematicamente sensibili a eventuali errori di una cartella esattoriale sbagliata? Come possiamo dare queste garanzie di efficienza se non ci mettiamo nella condizione di premiare, ad esempio, i dipendenti del tribunale di Torino che riescono a fare molto meglio che nelle altri corti? E di dare un incentivo agli uffici delle Agenzie delle Entrate che si dotino degli strumenti informativi e di consulenza personalizzata che riducano il disagio (che andrebbe quantificato e riconosciuto ai contribuenti sotto forma di aggio “al contrario” per le contestazioni errate) causato ai contribuenti nelle attività riscossione ordinaria?
Certo, la pubblica amministrazione è diversa dal settore privato e sorprende la posizione di chi, come Ichino, sembra potersi accontentare di far passare attraverso interpretazioni estensive dell’ultimo provvedimento una qualche omologazione tra i due settori. C’è bisogno, invece, per il pubblico di una riforma distinta, ma ancora più organica e chiara di quella del mercato del lavoro. E, tuttavia, non si vede proprio perché non si debbano poter applicare ad un Stato – ritenuto dalle maggiori agenzie di rating sull’orlo del fallimento e reso non credibile dalla prestazione insufficiente di molti dei suoi “servitori” – la categoria del licenziamento per “giustificati motivi” economici (o di sparizione di un dato livello istituzionale, come nel caso delle Province) o disciplinari. Anche se essi vanno sicuramente adattati a ciascuna politica pubblica con un lavoro intelligente e sofisticato che passi, tanto per cominciare, dal costruire sistemi di valutazione che – dopo tante chiacchiere – finalmente funzionino. Valutazione che sia in grado di dar conto a tutti di quanto valore riesce ciascun dirigente a generare per ogni Euro speso, in maniera che siano i cittadini a diventare i primi custodi del cambiamento continuo. E che è una condizione indispensabile per evitare che l’introduzione di una flessibilità della carriera faccia precipitare le amministrazioni dalla padella dell’inefficienza alla brace dell’arbitrio di chi ha vinto le elezioni con gravissimi rischi per tutti.
Una riforma ben fatta che parta dalla valutazione e arrivi a forme – equiparabili a quelle che vigono nel privato – di flessibilità delle carriere, rafforzando la trasparenza nei rapporti con chi governa e la responsabilità nei confronti dei cittadini. Deve essere questa la priorità assoluta delle prossime settimane. Quella che, forse, doveva persino precedere lo scontro tragicomico sull’articolo diciotto. Nessun sindacato, persino quelli ormai ridotti alla difesa del fortino pubblico, potrebbe trovare argomenti per resistere ad un progetto di cambiamento ambizioso e realistico che è indispensabile per dare una speranza alle altre quattro categorie di lavoratori il cui futuro continuerà a dipendere, anche dopo l’approvazione dell’articolo 18, da una revisione radicale del ruolo dello Stato nella società italiana.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 DIcembre