Non è ancora l’elettroshock in grado di svegliare un’economia che è praticamente ferma da due decenni e l’incertezza sulle coperture e il conseguente rinvio a ulteriori atti – decreti, disegni di legge – rendono incerti i tempi delle misure annunciate ieri al termine del Consiglio dei Ministri. Ma alcune scelte finalmente emergono in maniera netta.
La prima mossa è quella di fornire un’iniezione di liquidità e fiducia che sarà avvertita dalla pancia della società italiana, da quella classe media che ha visto un arretramento vistoso della sua capacità di acquisto e di benessere da quando la crisi è cominciata. Contemporaneamente, il premier comincia a dare sostanza alla madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, puntando sulla semplificazione delle regole – che è un prerequisito per attrarre imprenditori – e sulla sostituzione progressiva della Cassa Integrazione con sussidi universali. Rimane, tuttavia, un nodo grande che è quello delle “coperture”, ma soprattutto dell’assenza degli strumenti che sarebbero indispensabili per rendere permanente e strutturale il processo di revisione intelligente della spesa pubblica.
La manovra di ieri “cambia il verso”, dunque, alla politica economica in Italia. Soprattutto perché è evidente il passaggio ad un livello di ambizione più elevato che appare fortemente connesso alla consapevolezza che tale ambizione può essere sostenuta solo da scelte radicali e non da ridistribuzioni lineari di sacrifici o di eventuali risorse addizionali. Di scelte nette nella manovra ce ne sono certamente di più che negli esercizi simili proposti dal Governo precedente.
Si comincia, dunque, con i lavoratori dipendenti e di reddito medio. I dieci miliardi all’anno che il nuovo Presidente del Consiglio scommette sulla ripresa, sono quasi interamente dedicati ai dieci milioni di percettori di stipendio con un reddito inferiore a trentamila euro: circa mille euro all’anno che sono sufficienti – secondo le stime dell’ISTAT – per pagare i consumi alimentari di una famiglia media per due mesi e capovolgere la previsione dei modelli econometrici che prevedevano una riduzione di circa 700 euro nei prossimi tre anni dei consumi di una famiglia sostenuta dal lavoro di un operaio o da un impiegato. Non è la soluzione finale e, forse, aspettative troppo elevate sono pericolose per quella che appare essere l’ultima opzione politica per un Paese che ha tentato di tutto: tuttavia, scegliere di investire l’intera posta in gioco su chi ha perso capacità d’acquisto e ha fatto i sacrifici più grandi, può portare – attraverso i moltiplicatori della spesa – ad un beneficio per le imprese italiane che hanno maggiormente innovato e sono in grado di competere nell’offerta di prodotti primari.
Ancora più importanti sono però le linee guida del disegno di legge che dovrebbe delegare il Governo alla riforma complessiva del mercato del lavoro. I pilastri ne saranno due trasformazioni radicali.
La prima è la transizione da un sistema che protegge chi ha un lavoro e in funzione del suo stipendio ad un modello (europeo) di assistenza per tutti: è la ricetta giusta per aumentare il tasso di occupazione (che ancora più di quello di disoccupazione fotografa l’incapacità del nostro Paese di usare il proprio potenziale), ma ciò comporta uno spostamento di risorse significative che non potrà che mettere in discussione ruolo e natura dei sindacati. E cambiare, nel tempo, lo stesso modello di politica industriale nel nostro Paese: molto più difficile sarà usare – come tante volte ha fatto il Ministero che abbiamo continuato ironicamente dello “sviluppo economico” – gli ammortizzatori sociali per tenere in vita imprese di medie e grandi dimensioni non più competitive; molto più importante sarà puntare su settori in crescita e nei quali possiamo utilizzare vantaggi competitivi.
La seconda idea del Governo è della semplificazione drastica delle forme contrattuali che coincide, peraltro, con la richiesta di maggiore certezza da parte di imprenditori che non possono, soprattutto se immersi totalmente in un lavoro costante di innovazione, scegliere di stare nel nostro Paese e accettare la variabile impazzita di regole non comprensibili. Anche in questo caso, del resto, la scelta di privilegiare l’efficienza coincide con quella di diminuire l’iniquità: il mondo del lavoro è spaccato in due tra chi ha troppa protezione (che è normalmente associata ad un lavoro dipendente in imprese con più di quindici dipendenti) e chi ne ha troppo poca. Ed è di buon senso anche prevedere che i contratti siano a tutele crescenti per riportare nel mondo del lavoro chi ne è attualmente escluso o ne vive – nel sommerso – ai margini.
Il punto debole sono però le coperture per due ragioni.
La prima è che con tutta evidenza è ai sette miliardi e mezzo necessari da qui fino alla fine dell’anno per coprire il costo dello shock fiscale, non si arriva con i tre racimolati da Cottarelli: ridiventa, dunque, necessario convincere le istituzioni comunitarie della necessità di investire nelle quotidianità delle persone e nelle scuole, il risparmio generato per il fatto di essere riusciti a domare il mostro dello spread e del patto di stabilità. La conseguenza è il rallentamento che Renzi ha dovuto accettare ieri nella concreta realizzazione delle proposte.
Ma la seconda è che continuano a mancare gli strumenti che consentano di rendere il processo di revisione della spesa strutturale. Va bene intervenire sugli enti inutili, anche se non c’è solo il CNEL e quasi tutti potrebbero essere messi in discussione senza revisioni costituzionali; è urgente continuare a tagliare i costi della politica soprattutto per recuperare credibilità; ed è sacrosanto intervenire sulle pensioni di importo più rilevante perché nonostante vent’anni di riforme continuiamo a spendere in previdenza tre volte e mezzo più di quello che spendiamo in educazione e cinque punti di PIL più della Germania; ed è ragionevole esentare da ulteriori tagli la cultura, drenandole risorse dalla difesa.
E tuttavia sull’abbassamento e, ancor più precisamente, la modifica della composizione della spesa pubblica, per avere la “svolta buona” dobbiamo soprattutto: avere una contabilità gestionale dello Stato in grado di identificare gli sprechi; rendere assolutamente obbligatoria la valutazione dei risultati ottenuti da chiunque spenda un EURO di risorse pubbliche; legare lo stipendio o l’andamento della carriera di qualsiasi dirigente ma anche dei suoi collaboratori all’ottenimento di quei risultati.
La conferenza stampa di ieri cambia verso, parla, finalmente, di cose concrete e crea aspettative. Per rendere quelle aspettative sostenibili, bisogna rendere il cambiamento permanente e irreversibile.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 Marzo