Creare consenso attorno a decisioni che sembrano costituire un suicidio politico sicuro per chiunque le proponga, e che pure sono indispensabili se vogliamo invertire un declino che dura da vent’anni.
È questa la vera questione attorno alla quale si agita l’eterno comporsi e ricomporsi dell’offerta politica in Italia. Chi riuscisse a risolvere questa equazione impossibile, avrebbe trovato la formula per risolvere i problemi, vincere le elezioni e inaugurare un ciclo politico duraturo. Finora non c’è riuscito nessuno ed è questo il motivo per il quale negli ultimi due decenni vige in Italia una specie di maledizione che condanna chiunque abbia provato a governare, a dover perdere sonoramente le elezioni.
I termini della contraddizione sono del resto noti: se anche solo proviamo a nominare quelli che sono i nodi che strozzano la crescita (non solo economica) della società italiana, ci si rivoltano contro le lobbies economiche o i segmenti elettorali che hanno interesse al mantenimento di un certo privilegio; se però queste questioni non le affrontiamo,la crisi continua e, alla prima occasione ,le opinioni pubbliche ci puniscono. Cosa fare allora? Come possiamo cambiare l’Italia, se è ovvio che qualsiasi cambiamento non può prescindere – almeno non può farlo in una democrazia – da un momento di responsabilizzazione da parte di tutti o di molti? Come potrebbe riuscirci uno come Letta che alla prova difficilissima del governo si sta applicando in questo momento o come Renzi che rischia di vincere le prossime elezioni solo per ritrovarsi di fronte allo stesso dilemma?
Tre le strade che sono state finora tentate con successo limitato.
Intanto c’è stato il metodo Monti, quello di “dire la verità”, di rappresentare agli italiani la crudezza della situazione per convincerli che al cambiamento non c’è alternativa. L’idea non ha funzionato; forse perché l’operazione verità fu tentata a metà e anche per il Professore alcuni argomenti rimasero tabù. C’è poi il gradualismo di un Ministro dell’economia come Saccomanni che prima di qualsiasi altra cosa, si preoccupa di “rassicurare” distribuendo i sacrifici in maniera che nessuno se ne accorga: il problema di questo approccio è che rischia di dare frutti tangibili solo quando sarà troppo tardi. Infine ,c’è l’approccio di un tecnico come Cottarelli o come il ministro del lavoro Giovannini: si aprono cantieri di cambiamento sui temi più scottanti – ad esempio quello dei diritti acquisiti o della mobilità nel pubblico impiego – sollevando meno clamore possibile per ridurre le resistenze. Anche questo metodo ha però dei limiti, perché per sua stessa definizione non punta alla condivisione del cambiamento e, dunque, esso rischia di essere cancellato non appena il tecnico va via.
Un’alternativa più efficace, in realtà, esiste. Si tratta di ribaltare completamente l’idea (marxiana) di politica come attività di ricerca del consenso perseguito concedendo determinati benefici a determinate categorie professionali o classi.
Proprio l’esempio dei diritti acquisiti e dei dipendenti pubblici può essere utile. Ormai è chiaro che il problema principale dell’Italia è una spesa pubblica eccessiva, ma anche di bassa qualità e incapace di generare crescita. Qualsiasi tentativo però di revisione intelligente della spesa produrrà un topolino se non mettiamo mano a due autentici moloch: lo stock delle pensioni esistenti, perché, comunque, continuano a rappresentare un terzo della spesa pubblica e, per definizione, non generano alcun ritorno; l’intoccabilità del posto pubblico, perché persino la tanto agognata abolizione delle province finirebbe con il produrre un aumento della spesa se i dipendenti dovessero essere tutti trasferiti alle Regioni con le stesse mansioni.
Come si fa, però, anche solo a nominare temi, la cui evocazione porterebbe ad un immediato sciopero generale? La possibilità è quella di maturare una visione più articolata, meno mercantile dei meccanismi che generano consenso. E molto più concreta di quella che ha ridotto la politica ad un gioco a somma zero.
Ad esempio, i pensionati non sono tutti uguali. Esistono quelli con pensioni assai elevate e di importo assai maggiore ai contributi versati; ed altri che vivono sotto la soglia della povertà. Inoltre, molti di loro sono già solidali nei confronti dei propri figli e nipoti, e non è detto che – nella prospettiva di una società che cominciasse a diventare più coesa ed efficiente – rifiuterebbero in partenza l’idea che una parte del loro trattamento vada a finanziare meccanismi di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Non sono, infine, poche le persone che vivono come un dramma il momento nel quale si ritirano dal mondo del lavoro, e non è detto che alcuni di loro non accettino di trasformare un pezzo della propria rendita in un percorso che li porti a riconquistare un lavoro, magari molto diverso e più gratificante di quello svolto in precedenza. In qualsiasi caso gli stessi sindacati – i cui iscritti sono in gran parte pensionati – non possono non sapere che il sistema attuale non è sostenibile e che un eventuale fallimento avrebbe costi per i propri iscritti molto superiori rispetto alla trasformazione.
Considerazioni analoghe valgono per i dipendenti pubblici. Anche loro non sono tutti uguali. Ci sono molti per i quali il posto pubblico al quale si accede per concorso è, per definizione, intoccabile. Ma anche quelli che si rendono conto che una pubblica amministrazione che può solo usare la leva del blocco del turn over per diminuire il proprio costo, è una organizzazione destinata – altrettanto per definizione – ad invecchiare, a diventare sempre più inefficiente ed esposta agli attacchi di chi vuole ridurne il peso. Tra i dirigenti pubblici, poi, ci sono quelli la cui cattiva prestazione diventa un collo di bottiglia per processi di sviluppo che riguardano milioni di individui, ma anche quelli bravi e che probabilmente sarebbero alleati di un cambiamento che introduca elementi di valutazione e di premio legati al risultato.
È una strada stretta quella del cambiamento che passa attraverso i veti degli interessi precostituiti senza farsene bloccare. Può diventare però più larga se la politica reinterpretasse le sue categorie, se fosse capace di stimolare i bisogni – fondamentali – delle persone di essere cittadini responsabili e non solo consumatori. È, in qualsiasi caso, una strada obbligata, perché se non cambiamo, il Paese continua ad affondare e chi governa continuerà a perdere le elezioni.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 25 Novembre