Una delle difficoltà che nascono di fronte ai fatti di Parigi è rappresentata dalla mancanza di una struttura narrativa consolidata che ci consenta di raccontare e raccontarci quello che sta accadendo. Ne deriva una pioggia di banalità che sembrano tratte da un deposito in cui tutti gli argomenti siano archiviati, pronti per un uso rapido e acritico. Basta sentire o leggere l’inizio di uno dei mille interventi di questi giorni per sapere come proseguirà e da quali loci – come direbbe la retorica antica e moderna – proviene.
Passo ore a pensare banalità e a confrontarmi con altre banalità; è difficile trovare parole originali che aiutino a trovare un percorso di riflessione non ancora battuto infinite volte. Il terrorismo è islamico, il terrorismo non è islamico, gli spari di Parigi sono come le bombe e i droni occidentali che colpiscono le popolazioni arabe, la legittimità delle autorità politiche democratiche è cosa ben diversa dalla autolegittimazione di dittatori o terroristi, l’Islam è violento, anche il cristianesimo è violento, forse la religione è essenzialmente violenta, ma anche l’ateismo di stato è stato molto violento, Allah Akbar è una rivendicazione di superiorità, Allah Akbar significa che Dio è il più grande – di ogni idolo e quindi anche della certezza che spinge a colpire gli avversari -, la jihad è la guerra santa che viene predicata contro gli infedeli, la jihad è il comando di esercitare il massimo sforzo soprattutto nella propria interiorità e nella propria esistenza.
Loci o, per essere più modesti, luoghi comuni, troppo spesso contrapposti, che pare impossibile incrociare tra loro per farne sgorgare qualche argomento non ancora abusato, qualche scintilla di comprensione.
Uno di questi rari incroci mi sembra suggerito da un articolo di Silvia Ronchey – La fiction occidentale del Califfato – pubblicato su Repubblica il 19 scorso. Al di là delle considerazioni iniziali su violenza, ecumenismo egualitario, guerre califfali e guerre più o meno sante di cristianesimo e islamismo, è molto interessante l’idea che l’Is, nelle sue diverse forme di espressione, proponga non tanto una immagine di sé quanto quella sedimentata nel tempo nel nostro incoscio sociale a partire da una propaganda che ha origini medievali; la narrazione orrifica del fondamentalismo viene proposta dal terrorismo, ma è costruita con materiali occidentali.
Se è vero e sembra vero che ci si trova di fronte a un uso mistificato di una narrazione fittizia dell’islam: della sua fiction, concepita per produrre orrore mettendo in scena un dramma che ha l’insensatezza incalzante dell’horror occidentale, si presenta una difficoltà assai grave dal punto di vista teorico, perché le strutture narrative con cui raccontiamo e ci raccontiamo quanto vediamo accadere intorno a noi e trasformiamo alcuni avvenimenti in fatti storici non possono essere costruite come si vuole e quando si vuole, trattandosi di fatti culturali che richiedono lunghissime gestazioni, come tutti i fatti culturali. Possiamo renderci conto che la struttura narrativa che ci viene proposta non è efficace, ma come fare a trovarne un’altra? E tuttavia pare aver ragione Hayden White quando scrive: Emergendo, come dice Barthes, tra la nostra esperienza del mondo e i nostri sforzi di descrivere quell’esperienza in linguaggio, la narrazione «sostituisce incessantemente il senso alla copia pura e semplice degli avvenimenti riportati». Ne consegue che l’assenza di capacità narrativa o un rifiuto di essa comporta un’assenza o un rifiuto del significato stesso.
L'ASINO DI BURIDANO
Capisco la prima – e concedo – ma non mi è chiara la seconda, scusa.
Se l’interpretazione fa storia, e possediamo solo interpretazioni (a quanto è dato di leggere); posto che la mancanza di narrazione è un’interpretazione, perché non fa storia? Si può essere – o meno d’accordo – che i fatti necessitino di una donazione di senso per fare storia, ma se i fatti non ci sono, se ne conclude che solo le interpretazioni inserite in un contesto narrativo hanno un senso.
Ma esiste una interpretazione senza un contesto che la reclami per essere tale? Non cessa di essere interpretazione e diviene qualcosa d’altro – qualsiasi cosa si intenda per altro (fatti, dati, cose, eventi, accadimenti etc.)?
Il fatto che noi non possiamo che accedere attraverso interpretazioni ai fatti non cancella, anzi ci impone la presenza di un riferimento oggettivo – ad esempio un morto – e di un significato, anche normativo, che producono le nostre interpretazioni. Il fatto che 1500 civili siano morti per un recente bombardamento in Siria non giustifica né legittima la strage di 120 civili a Parigi; al contrario, noi giudichiamo illegittimo e ingiustificabile l’eccidio di Parigi proprio perché giudichiamo nello stesso modo, e quindi nello stesso modo interpretiamo, quello che è accaduto e accade in Siria. Altrimenti ricadiamo nella logica di narrazioni come occhio per occhio, dente per dente.
Il che ci fa capire che al di là delle interpretazioni esistono dei fatti, illuminati o meno che siano dalle interpretazioni stesse.
Credo anch’io che esistano elementi oggettivi, ai quali accediamo attraverso le interpretazioni, ma penso sia necessario un passo in più affinché un fatto divenga un fatto storico, e cioè l’inserimento entro una narrazione. Ad esempio un morto – dici – ma appunto sono stati moltissimi i morti che sono rimasti fatti senza mai diventare fatti storici, perché mai sono stati inseriti in una narrazione.
Non voglio arrivare da nessuna parte né dimostrare qualcosa; mi domando solo se abbiamo a disposizione strutture narrative in grado di fornire una qualche idea di quanto sta accadendo.
Il grande massacro dei gatti?
C’è del vero in quello che che dici sulla selezione come coscienza storica. Ma è ineluttabile che non si possa mappare 1/1 quel paese straniero che è il passato e si debba mettere in prospettiva gli accadimenti. Sia che questo avvenga in una narrazione storica/escatologica di matrice agostiniana, come mi pare di leggere tra le tue righe, sia che la narrazione sia di altri tipi: pensa a un ritorno, per nulla provocatorio in una global history, della translatio studii come narrazione storiografica; sia infine quella digitale che si muove sulla proiezione verticale della distant reading.
In ogni caso gli eventi e le dottrine del passato sono letti e descritti in relazione a una molteplicità di punti di vista attraverso i quali una prospettiva teorica, parziale e a sua volta oggettivabile, decide di fare luce su certi aspetti del reale e ne lascia, per forza, in ombra altri all’interno di un movimento mai completo di possibili, e libere, scelte interpretative.
Scelte responsabili e mai appiattite sul mero dato presente, se vogliamo rifarci al pensiero di Dal Pra, o di attese e oblii che svelano il senso della nostra intrinseca storicità, se optiamo per seguire la lezione di Gadamer.
Si pone qui un problema che ti coinvolge come informatico umanista: che siano ontologie relazionali o dure: chi seleziona gli oggetti di tali narrazioni? Chi sono gli aggregatori storiografici? La selezione delle informazioni, e il senso, e oggi anche la forma, delle narrazioni è un atto di iperlettura (nel senso del suffisso greco yper (selezione in nome di). Ma se la fa una comunità sociale, ad esempio quella scientifica, in seguito a un accordo negoziale – ad esempio in base al criterio del senso comune, come penso io – mi sta bene. Ma se la fa un database (quelle che una volta chiamavamo macchine?). Pensa a ieri, a Bruxelles. Quando il database ha annullato i tweet della storia evenemenziale di chi andava a comprare la frutta ed è stato dimenticato. E non ne sapremo nulla, oscurati per di più dal rumore mediatico dei gattini, di cosa è accaduto.
Il problema si complica e richiede un altro blog, forse: come si aggregano i dati che determinano la luce e gli oblii è un problema ermeneutico. Ma oggi siamo apertamente di fronte al problema del chi: una documentalità selezionata da fonti automatiche (pensa ai big data); oppure una documentalità cui avremo accesso solo attraverso ricostruzioni digitali – come il Leone di Mosul e Palmira – cioè la memoria storica della nostra civiltà e della nostra specie, cui avremo accesso solo attraverso ricostruzioni in 3d. Qui l’aggregatore è una banca di dati che riprende e ricostruisce immagini immagazzinate in una, più o meno labile, banca dati. Cioè narrazioni costruite su narrazioni.
Il che per un medievale, come mostra la storia del prete Gianni o gli Sciapodi, non fa problemi perché la verità è quello che si crede vero. Ma per noi? La modernità è tramontata non solo nelle raffinate analisi e paragoni tra teologie del XIV secolo e fisiche, e logiche, contemporanee, ma anche nella vita quotidiana? Non possiamo non dirci medievali(sti)?
Chiedo solo un chiarimento. Se sostituiamo narrazione con tesi, che differenza c’è dal celebre: possediamo solo tesi, e non ci sono fatti ma solo interpretazioni: stat rosa pristina nomine …?
Penso che la narrazione sia un’interpretazione che fa storia, perché offre un senso. Anche la mancanza di narrazione è una interpretazione, ma non fa storia.