Qual è l’orizzonte della Chiesa? La risposta che oggi sembra essere unanime è “la sagrestia”. Alla Chiesa è chiesto di stare nelle sagrestie, di regolarne i flussi e deflussi. Basta. C’è certamente un’ampia letteratura che ci ha convinto di questo, e sette anni di pontificato bergogliano non hanno scalfito questa certezza antica, profonda. Così tutti i titoli sull’esortazione apostolica “Querida Amazzonia” di tutto si occupano fuorché di Amazzonia: ma di celibato ribadito, confermato, forse intaccato. Dunque l’orizzonte della Chiesa, per chi scrive di Chiesa, è questo. Non esiste Chiesa in uscita, non esiste “ospedale da campo”, non esiste popolo di Dio, non esiste altro che la sagrestia e le sue regole, o meglio le sue umanissime norme. Non è così per Papa Francesco che ha scritto un altro testo di importanza imprescindibile per l’uomo e il mondo, che o riscopre l’urgenze di vivere, intero, in un mondo plurale o smetterà di vivere e potrà solo consumare quel che rimarrà ancora da consumare. Ma il testo non conta, conta una disciplina, opinabile come tutte le discipline, che sancisce lo stato celibatario dei sacerdoti non nella Chiesa cattolica ma in due delle tantissime cattoliche, quella latina e quella ambrosiana.
Il problema è rilevante, certamente, perché questo stato celibatario deriva da una lettura sessuofobica che ha reso sessuofobica la Chiesa e la sua cultura. Solo l’idea che il sesso sia impurità poteva portare, nei secoli, a rendere obbligatorio il celibato per chi deve officiare i riti. Dunque l’atto che dona la vita è impuro. Va bene così? Chissà. Ma loro continuano a parlare di altro, hanno un clero malato di abusi sessuali e non vedono che questo deriva da una concezione del potere clericale che deriva da un’idea di potere che consente abusi prodotti in buona parte dai danni della sessuofobia, ma non ne vogliono prendere atto.
Non altrettanto può dirsi per Francesco, che cambia la Chiesa, ma si finge che non sia vero. Anche questa esortazione apostolica lo conferma. L’esortazione apostolica segue il sinodo dei vescovi. Un tempo quel che decideva il sinodo era segreto, veniva comunicato solo al papa, lui poi scriveva l’esortazione apostolica post-sinodale. Ora non è più così. No. Ora i deliberati sinodali sono noti, e del sinodo sull’Amazzonia è nota la richiesta di un’eccezione alla regola celibataria. Quei popoli irraggiungibili hanno bisogno di eucaristia per non morire di digiuno eucaristico. Francesco, con la nuova Costituzione apostolica “Episcopalis comunio” ha stabilito che se approvato espressamente dal Romano Pontefice, il documento finale di un sinodo partecipa del magistero, cioè è magistero. E il Romano Pontefice lo ha condivo quel testo sinodale sull’Amazzonia? Vediamo. La sua lettera apostolica comincia così: “Ho ascoltato gli interventi durante il Sinodo e ho letto con interesse i contributi dei circoli minori. Con questa Esortazione desidero esprimere le risonanze che ha provocato in me questo percorso di dialogo e discernimento. Non svilupperò qui tutte le questioni abbondantemente esposte nel Documento conclusivo. Non intendo né sostituirlo né ripeterlo. Desidero solo offrire un breve quadro di riflessione che incarni nella realtà amazzonica una sintesi di alcune grandi preoccupazioni che ho già manifestato nei miei documenti precedenti, affinché possa aiutare e orientare verso un’armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell’intero cammino sinodale. Nello stesso tempo voglio presentare ufficialmente quel Documento, che ci offre le conclusioni del Sinodo e a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell’Amazzonia, perché ci vivono, ci soffrono e la amano con passione. Ho preferito non citare tale Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente. Dio voglia che tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro, che i pastori, i consacrati, le consacrate e i fedeli laici dell’Amazzonia si impegnino nella sua applicazione e che possa ispirare in qualche modo tutte le persone di buona volontà.” Queste parole sono chiarissime, come anche la Costituzione apostolica “Episcopalis comunio.” Ma per i migliori depositari delle verità dei corridoi dei passi perduti non è così. Avrò torto io, mi interessa poco, quel che qui interessa è avere ragione sul resto. E il resto è che Francesco porta la Chiesa e tutti i suoi lettori fuori dal micro-mondo delle sagrestie e dei sagrestani. E lo fa con poesia, sogni e indignazione.
Quest’uomo, vescovo di Roma, scrive che “Bisogna indignarsi, come si indignava Mosè, come si indignava Gesù, come Dio si indigna davanti all’ingiustizia. Non è sano che ci abituiamo al male, non ci fa bene permettere che ci anestetizzino la coscienza sociale, mentre «una scia di distruzione, e perfino di morte, per tutte le nostre regioni […] mette in pericolo la vita di milioni di persone e in special modo dell’habitat dei contadini e degli indigeni.” La corrispondenza tra Papa Francesco e i suoi lettori, o commentatori, sarà data dal risalto che verrà dato a questa indicazione magisteriale rispetto alle valutazioni su cosa dica del celibato obbligatorio.
Di più. Un uomo profondamente cittadino, totalmente metropolitano, sa guardare ai popoli amazzonici e dire: “Gli abitanti delle città hanno bisogno di apprezzare questa saggezza e lasciarsi “rieducare” di fronte al consumismo ansioso e all’isolamento urbano.”
L’esortazione apostolica “Querida Amazzonia” parla proprio a tutti, è un testo per la salvaguardia del pluralismo dell’umanità, per il recupero del pluralismo del cattolicesimo, che non può essere ridotto a una cultura, una visione, un imperialismo centralista. E sa indicare a tutti, non solo a loro, questa necessità di indignarsi, adesso. E la spiega così: “Le storie di ingiustizia e di crudeltà accadute in Amazzonia anche durante il secolo scorso dovrebbero provocare un profondo rifiuto, ma nello stesso tempo dovrebbero renderci più sensibili a riconoscere forme anche attuali di sfruttamento umano, di prevaricazione e di morte. In merito al passato vergognoso, raccogliamo, a modo di esempio, una narrazione sulle sofferenze degli indigeni dell’epoca del caucciù nell’Amazzonia venezuelana: “Agli indigeni non davano denaro, solo mercanzia e a caro prezzo, così non finivano mai di pagarla, […] pagavano, ma dicevano all’indigeno: “Lei ha un grosso debito”, e doveva ritornare a lavorare […]. Più di venti villaggi ye’kuana sono stati completamente devastati. Le donne ye’kuana sono state violentate e amputati i loro petti, quelle gravide sventrate. Agli uomini tagliavano le dita delle mani o i polsi in modo che non potessero andare in barca […] insieme ad altre scene del più assurdo sadismo”.
Dunque la sfida è quella di capovolgere la globalizzazione dello sfruttamento e dell’orrore con la globalizzazione della solidarietà, senza marginalizzazioni. Recuperare il fattore culturale amazzonico è un valore enorme. Spiega l’esortazione apostolica: “Ora, senza sminuire l’importanza della libertà personale, va sottolineato che i popoli originari dell’Amazzonia possiedono un forte senso comunitario. Essi vivono così «il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso, gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi. La vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio.” Le relazioni umane sono impregnate dalla natura circostante, perché gli indigeni la sentono e la percepiscono come una realtà che integra la loro società e la loro comunità.”Ma l’umanesimo di Bergoglio non si ferma qui, tocca con linguaggio poetico e visione profetica il valore del pluralismo per tutti. A partire dalla difesa di chi vive della cultura del fiume, per arrivare a noi, che non la conosciamo, non la possiamo conoscere: “la visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità.”
Questo testo meritava un altro destino, meritava un altra lettura. Jorge Mario Bergoglio è un poeta che sa poetare per tutta l’umanità, le letture sagrestane riducono l’universale messaggio di questa poesia tesa a difendere il mondo dall’assalto dei monisti a un fatto per minutanti di qualche congregazione, magari dottrinalista.