Il 4 luglio 1776, per rendere note le cause che li portano a rivendicare il loro diritto a sciogliere i vincoli politici che li legavano alla Gran Bretagna, i tredici Stati Uniti d’America dichiarano solennemente di ritenere che esistano alcuni diritti inalienabili tra cui indicano la vita, la libertà e la ricerca della felicità.
In una bustina di Minerva, Umberto Eco scriveva: Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono – dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in tv, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa – siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che «a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità».
Eco sottolineava in particolare l’inclinazione a interpretare questo diritto come ricerca della felicità personale, indipendentemente da quella degli altri, e concludeva dicendo che la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra.
Negli ultimi anni si ha l’impressione che anche questo percorso si sia fatto più rapido, che il disinteresse sempre più accentuato per la sostanza delle cose stia portando progressivamente al trionfo della forma che rende anche il concetto di felicità decisamente sconnesso dai motivi per cui lo si dovrebbe adottare; lo si deve fare e basta. In giro per la rete si incontrano ricette per rendere sereno l’ambiente di lavoro, per compiere scelte consapevoli che consentano di migliorare la nostra vita, le nostre relazioni, la nostra salute, avere successo e realizzare i nostri sogni, perché sembra possibile una scienza della felicità.
Tutto ciò viene affermato in termini del tutto indipendenti da quanto si produce nell’ambiente di lavoro che si pretende poter aiutare nel perseguimento della felicità: composizioni di fiori da regalare in occasioni particolari o armi da usare in occasioni del tutto diverse? prodotti ortofrutticoli o riciclaggio di denaro?
La ricerca della felicità sta passando da diritto a dovere. Occorre sentirsi realizzati da una continua gara meritocratica, concorrere a riconoscimenti di eccellenza che prescindono da quanto si fa ma premiano il come lo si fa, il modo in cui ci si organizza, in cui si scrivono decine e decine di pagine, fingendo di prevedere tutto e tutto risolvere, perché tutto è risolvibile grazie a strumenti tecnici che sembrano ormai in grado di rispondere a qualsiasi problema che si frapponga fra noi e il perseguimento della felicità.
Esistono forse strumenti per dare un senso alla vita? È individuabile una risposta tecnica al dubbio sul fatto che la nostra esistenza abbia un qualche significato, e soprattutto che abbiano qualche significato il lavoro che ci siamo trovati a fare – quando ci è andata bene – e i modi in cui ci si impone di farlo? Nei dipartimenti universitari sono intervenuti appositi incaricati per spiegare quanto sia dannoso per la produttività lo stress sul posto di lavoro, e tutto ciò viene spiegato anche a chi deve pur occuparsi delle poesie di Leopardi o del pensiero di Schopenhauer.
Sarà pur vero che non esistono più le mitiche catene di montaggio, dalle quali i lavoratori si allontanavano tutt’altro che felici e realizzati, però si vedono ancora oggetti che qualcuno da qualche parte ancora produce, si incontrano ancora lavoratori precari o impiegati dei call center. Perché dovrebbero essere sereni e persino felici? Perché, se non si trova un senso o si perde quello che si pensava di aver trovato, non pare bello essere infelici, tristi o magari arrabbiati?
Grazie a Jefferson si è cominciato a parlare del diritto al perseguimento della felicità, ma sembra opportuno difendere anche il diritto all’infelicità e speriamo che la morte delle ideologie, il pensiero unico, la meritocrazia e la ricerca dell’eccellenza non ci costringano a essere sempre più sciocchi anziché felici.
L'ASINO DI BURIDANO
A me pare che una scienza della felicità si possa concepire solo a costo di ignorare la dimensione della trascendenza — non necessariamente intesa in senso religioso — a cui credo che l’idea di felicità sia necessariamente legata.