Sul “quantitative easing” (QE) avviato ieri dalla Banca Centrale Europea si sono sciolte le campane e il dibattito è, semmai, su chi ha avuto il merito maggiore di aver influenzato (da Roma) la decisione di Mario Draghi.
Anche stavolta la celebrazione, com’è già successo per mille false luci che abbiamo intravisto alla fine di un tunnel che dura da sette anni, è però durata poco più di ventiquattro ore. Ci hanno pensato i dati sulla produzione industriale (e non è detto che sia una buona notizia che a crescere sia il solo comparto automobilistico) e quelli sulla diminuzione ulteriore dei prestiti che le banche – investite da una valanga di denaro a buon mercato – fanno alle imprese, per gettare nuovamente nello sconforto chi misura lo stato dell’economia sul brevissimo termine.
Ma la celebrazione del QE è esagerata per motivi ben più strutturali. E Mario Draghi sarebbe il primo a essere infastidito da chi ne parla come se fosse una pozione magica.
Certo investire 60 miliardi di Euro al mese da oggi fino al Settembre 2016 non potrà non avere un impatto. Ma non è vero, come capita di leggere, che ci saranno solo vincitori. Ed è, invece, incerto l’impatto finale sull’obiettivo supremo che continua a essere quello della crescita e dell’occupazione.
Calerà – e lo sta già facendo rapidamente – il valore dell’Euro: ciò favorirà le esportazioni ma non è escluso che questa opportunità ci si presenta nel momento più sbagliato visto la riduzione brusca della domanda mondiale; contemporaneamente, aumenta il costo delle importazioni e delle materie prime e ciò può, in parte, ridurre l’aumento di competitività determinato dal dimezzamento del prezzo del petrolio. Si arresta il calo dei prezzi, ma, secondo alcuni, la deflazione non era ancora a livelli tali da incoraggiare i consumatori a rimandare gli acquisti e, soprattutto, secondo altri, diventa meno urgente ristrutturare catene di distribuzione spesso assai inefficienti.
Ma il vero prezzo del QE è un altro: esso può produrre un “azzardo morale” e, del resto, contiene, per definizione, un aspetto di iniquità perché trasferisce risorse dai debitori (che, magari, hanno avuto la colpa di assumersi debiti che non riescono ad onorare) ai creditori. Come sa molto bene Draghi, il quale ha fatto capire con il messaggio mandato alla Grecia nel giorno stesso del lancio del QE di voler assolutamente evitare questo rischio. L’azzardo morale è che Stati che non sono in grado, tuttora, di ridurre il proprio debito e il proprio peso, capiscano che con la mossa della BCE finisce tutto “a tarallucci e vino”. Che diminuisca la pressione a fare riforme. E di cambiamenti (parola più efficace di riforma) da fare ce ne sono ancora tanti. Anche in Italia. A cominciare dalla trasformazione dello stesso Stato, della sua pubblica amministrazione, che è, ovviamente, la causa più diretta del debito e che, finora, lo stesso governo Renzi ha solo sfiorato.
Per crescere non basta premere un pulsante sul quale c’è scritto “moneta per aumentare il PIL”. Sarebbe tragico pensare che esiste una scorciatoia per evitare cambiamenti che invece non possono che riguardare tutti.