Ha torto Susanna Camusso quando accusa Matteo Renzi di essere come Margaret Thatcher. Se oggi alla Signora che tirò l’Inghilterra fuori da un declino che sembrava senza ritorno, potessimo chiedere un consiglio su come ripetere quell’impresa in Italia, anche lei coglierebbe la differenza più grande tra le due situazioni: negli anni settanta la malattia del Regno Unito era la scarsa produttività di un’industria manifatturiera che aveva dominato il mondo; nel 2014 il problema più grosso dell’Italia è, invece, la produttività bassissima della spesa pubblica e della pubblica amministrazione che scarica un duplice fardello sulle imprese fatto di tasse elevate e adempimenti burocratici insostenibili.
Di fronte ad una crisi così acuta, un leader pragmatico punterebbe dritto al cuore del problema e, piuttosto che perdere ulteriore tempo nella battaglia ideologica sull’articolo 18 che si applica alle imprese private, proporrebbe ai sindacati uno scambio assolutamente pragmatico: “io Presidente del Consiglio mi impegno a non parlare più di una revisione della norma più controversa dello Statuto dei lavoratori; voi sindacati sarete d’accordo ad applicare l’articolo 18 – così come è formulato oggi – agli impiegati pubblici, facendo terminare una discriminazione che non è più accettabile dal punto di vista sia della possibilità che ha un Governo di mettere finalmente sotto controllo la spesa pubblica, che della coesione di una società che non può continuare ad essere fondata sulla discriminazione”.
In realtà l’Italia avrebbe bisogno di un leader di ferro per compiere il cambiamento radicale di cui avremmo bisogno. Invece, nulla di davvero rivoluzionario si coglie – al di là dei soliti toni incendiari delle dichiarazioni televisive – nel testo di legge delega presentato al Senato dal ministro Poletti qualche mese fa e emendato dal Governo la scorsa settimana per ciò che concerne l’articolo sul riordino delle forme contrattuali. Soprattutto continua a restare tabù per questo Governo (come lo fu per gli altri) il problema di una modernizzazione delle modalità con cui lo Stato stesso recluta, remunera, promuove o, eventualmente, licenzia i propri dipendenti.
In realtà, i dipendenti pubblici in Italia non sono più numerosi che in altri Paesi europei (ce ne sono tre milioni e mezzo in Italia; cinque milioni in Francia); e non è necessariamente vero che le mutazioni tecnologiche che stiamo vivendo riducono lo spazio di chi ha il compito di produrre ed erogare beni pubblici: alcune delle innovazioni decisive passano attraverso la scuola, il ridisegno delle città e della sanità, la riaggregazione dei dati in possesso degli enti. Ma la burocrazia che abbiamo oggi, in Italia, riesce a costare di più di amministrazioni che impiegano più persone in altri Paesi; è vecchia nell’età media (50 anni) e nei processi; non ha nulla a che vedere con l’amministrazione di cui avremmo bisogno oggi. La realtà è che, spesso, imprenditori e cittadini si ritrovano a pagare due volte: tasse salate per ottenere in cambio complicazioni che costano in termini di tempo e incertezza.
L’amministrazione pubblica italiana oggi soffre, prima di qualsiasi altra cosa, di una rigidità dovuta al fatto che retribuzioni e mantenimento dei posti di lavoro sono variabili indipendenti rispetto alle prestazioni individuali o di gruppo, oltre che a modifiche della domanda di un determinato servizio pubblico: fino a quando questo tabù non verrà infranto, qualsiasi revisione della spesa non potrà che essere marginale e i risparmi veri non potranno che venire dal blocco del turn over che ha, però, la pesante controindicazione di condannare l’amministrazione a giocare sempre con la stessa squadra le partite più importanti (dalla gestione dei musei a quella delle università) e, dunque, a ulteriori perdite di consenso e richieste di cure dimagranti.
È vero che la specificità della pubblica amministrazione esiste ed è riconosciuta dalla Costituzione: ma se il punto è quello di garantire che gli impiegati dello Stato siano imparziali e indipendenti della politica, il problema si risolve fissando – ogni anno, preventivamente – indicatori che tengano conto del diritto di ogni cittadino allo stesso trattamento. La riforma costituzionale più urgente è, però, quella di superare l’articolo (97) della Costituzione italiana che, in un contesto assai diverso da quello attuale, demandava l’organizzazione dei pubblici uffici alla Legge, negando così la possibilità che ciascun ufficio si organizzi in maniera autonoma per raggiungere con la massima efficienza possibile gli obiettivi assegnati.
Resterebbe una seconda obiezione rispetto ad un turn around thatcheriano delle amministrazioni pubbliche italiane: cosa ne facciamo di migliaia di dipendenti pubblici che potrebbero ritrovarsi, nel breve periodo, a scoprire – attraverso una revisione della spesa finalmente seria – che la propria amministrazione non ha più senso o che la propria prestazione non è sufficiente? La risposta sta nell’istituzione anche in Italia di un sussidio universale, che potrebbe essere finanziato, gradualmente, proprio con i risparmi che deriverebbero dalle ridondanze più evidenti. Esso però andrebbe disegnato in maniera da soddisfare tre condizioni: che resti un forte incentivo per la persona a trovare un’occupazione e a mettersi in discussione; che sia sempre accompagnato da un percorso di consulenza personalizzata che punti al reinserimento dell’impiegato pubblico o privato nel mondo del lavoro; che i finanziamenti alla formazione – alcune decine di miliardi di euro – siano distribuiti in maniera che formatori e centri per l’impiego siano pagati sulla base del numero dei posti di lavoro creati (e non della vicinanza ad un sindacato o ad una confessione) e che – tornando al tema della riforma del pubblico impiego – i dirigenti del Ministero del lavoro che si occupano di politiche attive del lavoro siano scelti dal Ministro sulla base delle loro prestazioni.
E allora la domanda di un Presidente del Consiglio davvero rivoluzionario dovrebbe essere: come mai ammettiamo – proprio con l’articolo 18 – la possibilità di licenziare per motivi “economici” nel privato e tale ipotesi non è neppure contemplata per uno Stato che si trova da anni in situazione di dissesto strutturale? Come posso fare il capo di governo o il ministro, se sono nell’impossibilità di dare un premio di produttività vero a chi tra i miei dirigenti ottiene risultati, e sostituire chi sbagliando ripetutamente ha, di fatto, dissipato risorse importanti e danneggiato milioni di lavoratori? Come è possibile che solo Brunetta e la Fornero abbiano tentato di affrontare l’argomento e, tutt’oggi, l’unico motivo per il quale si può mettere in discussione un posto di lavoro pubblico è il comportamento aggressivo di un dipendente o l’assenteismo?
La mossa avrebbe, come minimo, la conseguenza di far esplodere la contraddizione più grande sulla quale si basa lo stesso concetto di sindacato per come esso fu concepito nel secolo scorso: la pretesa di voler rappresentare tutti i lavoratori, lo porta a proteggere anche gli interessi di categorie la cui inefficienza è pagata – sotto forma di maggiori tasse o minori servizi – da chi lavora in altri comparti o, ancora di più, da chi non riesce ad entrare nel mondo del lavoro.
Renzi non è la Thatcher e non vi sono le condizioni per esserlo. Tuttavia, una leadership pragmatica vince se cambia i termini della questione; se supera i punti di frattura attorno ai quali si è organizzato un confronto senza sbocchi; se riesce a rompere l’unità tra conservatori ed innovatori che esiste anche all’interno dei blocchi contrapposti; se identifica i vincoli che spesso non sono nei titoli dei giornali e la cui rimozione può far ripartire più velocemente un Paese fermo da decenni in una palude di chiacchiere.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 Settembre
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