Larghe intese, vista corta. Questo il succo di un lungo e sconsolato editoriale di Ernesto Galli della Loggia che, sul «Corriere della Sera» del 20 ottobre, ha tirato le orecchie al governo del «tirare al campare». Ma c’è di più, anzi di meno – forse di peggio – nell’orizzonte per così dire «antropologico» della politica italiana. C’è la dismissione sistematica del principio di responsabilità da parte degli eletti. I parlamentari hanno/avrebbero le Camere per esprimersi compiutamente, invece da alcuni lustri preferiscono anticipare e contraddire pareri, opinioni, concioni nei talk show, nelle trasmissioni televisive a qualsiasi orario e di qualunque genere, nei dibattiti comizianti. In particolare, essi parlano dell’argomento all’ordine del giorno – metti, la «legge di stabilità» – quasi fosse un che appreso poco prima, magari di sorpresa, e sul quale faranno il possibile affinché non venga approvato dal Parlamento se non, ovvio, «con le necessarie modifiche».
L’atteggiamento sarebbe giustificabile in un deputato o in un senatore dell’opposizione; in parte, perché anche un oppositore avrebbe il dovere del dissenso informato rispetto al cittadino preso dalla vita quotidiana, dal lavoro o dalla ricerca di un lavoro. Ma è inaccettabile che a cascare dalle nuvole siano i membri della maggioranza che appoggia il governo Letta: Pd, Pdl, Scelta Civica, un trittico sull’orlo di una crisi di nervi.
Tutti loro e anche noi scomodiamo sempre più spesso la famosa «Europa» considerandola nel recinto di Totem und Tabu, per dirla col titolo di un trattato freudiano: un tic a dir poco nevrotico. Sembriamo dimentichi, infatti, che l’Italia è nell’Unione europea da mezzo secolo e passa. L’Europa non è un’entità altra, salvifica o diabolica, ma una dimensione/istituzione geopolitica cui gli italiani hanno contribuito in maniera essenziale nelle premesse teoriche (Altiero Spinelli e i suoi compagni confinati dal fascismo a Ventotene), nell’iter fondativo e oggi nell’andare alla deriva in primis sul versante culturale. Ebbene, altrove in Europa una riserva sulla legge di bilancio coincide con una sfiducia de facto al governo. Sono sufficienti, in proposito, dissensi molto meno gravi di quelli avanzati da esponenti della maggioranza sul decreto di legge stabilità 2014, con le sue proiezioni nel prossimo triennio in materia di pressione fiscale o di spesa pubblica. Ve n’è abbastanza, insomma, per sospettare una schizofrenia politica nazionale: lo sdoppiamento o la disgregazione della personalità che può condurre dritti dritti alla psicosi. O perlomeno a una sorta di legge d’instabilità permanente.
Del resto i sintomi non mancano nell’ambito dei partiti. Un autentico psicodramma è in atto nel Pdl, alle prese da mesi con un parricidio tanto necessario quanto «impossibile» (Berlusconi totem e tabù). Mentre il Partito democratico vede impegnati nella lizza per la leadership quattro nomi non inflazionati: i cinquantenni Pittella e Cuperlo, e i men che quarantenni Renzi e Civati. Quest’ultimo, l’altra sera a Piazzapulita su La7, è stato rampognato sia dallo scrittore Aldo Busi, sia dal giornalista Pierluigi Battista. Busi sta invecchiando bene. Ha parlato di «una sinistra berlusconiana» e ha concluso che lui, da elettore di sinistra, ormai s’è rassegnato a preferire un governo autenticamente di destra a uno di sinistra-destra, più difficile da bersagliare (il paradosso è solo apparente, né si tratta di una stravaganza letteraria). Civati stava dando ragione a Busi blandendolo con un linguaggio giovanilisticamente corretto e gli immancabili anglicismi di complemento, allorché Battista lo ha interrotto per invitarlo a sfoderare un po’ di orgoglio di partito. Quel partito di cui Civati aspira a divenire segretario!
Ha ragione l’anziano «migliorista» Emanuele Macaluso, autore di un recente libro su Togliatti (Feltrinelli ed.), quando insiste sul danno prodotto in Italia dall’avvento di partiti politici «senza storia», obliata o esorcizzata che sia. Il centro-destra berlusconiano e il centro-sinistra dei post-comunisti e dei post-democristiani «agitati, non mescolati» (il mio nome è Letta, Enrico Letta) procedono entrambi privi di una tradizione manifesta. Nascondono gli album di famiglia, a volte imbarazzanti, e parlano di futuro simulando l’assenza di radici. Talora davvero inesistenti, come nel caso del Movimento 5 Stelle. La smemoratezza è parte dell’allegra rinuncia alla responsabilità, che da tempo riguarda altri aspetti della vita pubblica. Per dirne solo una delle ultime viste in Tv e tacere delle baruffe chiozzotte tra Fazio e Brunetta («Che barba, che noia. Che noia, che barba!»), abbiamo appena assistito alla riabilitazione di Piero Marrazzo dopo la sua stagione arrazzata. Raidue ha affidato all’ex governatore laziale, finito nel 2009 in un pasticciaccio di droga e transessuali, la conduzione del programma Razza umana. Marrazzo/razza. Chi ha scelto il titolo, Bartezzaghi? O è un lapsus? E il Paese che fa, dal lettone di Putin approda finalmente al lettino di Freud? Sarebbe ora.
(articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 24 ottobre 2013)