Delineare il rapporto, soprattutto filosofico, di Benedetto Croce con il pragmatismo non è semplice. E probabilmente non ci aiuta nemmeno la recentissima pubblicazione dell’importante Carteggio intercorso fra il 1902 e il 1914 con Giovanni Papini, curato con competenza e rigore da Maria Panetta per i tipi delle Edizioni di storia e letteratura (pagg. 344, euro 52,00). E vero, infatti, che, nel periodo della corrispondenza, Papini si dichiarava pragmatista e si peritava di introdurre e far conoscere in Italia le opere degli americani e soprattutto di William James (1842-1910). Ma è anche vero che ne dava una lettura discutibile, tutta piegata verso un vitalismo attivistico che, se rompeva le incrostazioni del positivismo, non poteva certo trovare i favori di un pensatore comunque ben piantato sui saldi terreni della razionalità quale era Croce. Papini, in ogni caso, come il Carteggio ampiamente dimostra, non voleva nemmeno seguire Croce sul terreno della speculazione, che riteneva una perdita di tempo che avrebbe distolto dall’azione. Su questo terreno, in verità, sembrerebbe che per il pragmatismo, in una concezione del mondo quale quella crociana, spazio non possa davvero esserci. Certo, lo Spirito è volontà e attività, è essere che non è ma si fa, ma la volontà crociana, come con autorevolezza sottolinea Gennaro Sasso nella lunga introduzione al testo, ” non era la stessa di cui parlavano i pragmatisti italiani e il loro stesso maestro James. Non aveva niente a che vedere con il Will to Believe, non si poneva innanzi al pensiero condizionandolo e orientandolo nella direzione che essa indicava”. D’altronde, Croce stesso non si preoccupava di distinguere troppo, non solo a livello storiografico, il pragmatismo dalle altre e diverse forme di “irrazionalismo” che in quel periodo avevano non secondario corso in un Europa in crisi. Sarebbe però troppo facile chiudere il discorso qui: per tutta una serie di motivi, che, già presenti, nella prima fase del pensiero crociano, sarebbero poi maturati e addirittura esplosi nello sviluppo della sua opera. Che le categorie crociane fossero ben strane categorie sin dall’inizio, lo dimostra, fra l’altro, la chiusa della Filosofia della pratica, e quindi dell’intero “sistema”. In essa Croce relativizza la sua stessa costruzione e fa delle categorie semplici “paletti” messi provvisoriamente a orientamento della comprensione della realtà. Non esiste un sistema di pensiero definitivo, scrive, “perche, essa, la Vita, non è mai definitiva”. Ove il concetto di Vita, appunto, sembra già assumere quel carattere esplosivo che avrà poi, nel secondo dopoguerra, con l’elaborazione della Supercategoria della Vitalità, che in qualche modo finirà per assorbire tutte le altre. Ma altresì interessante per il nostro discorso è come Croce definisce, già nel 1938, nella Storia come pensiero e come azione le categorie: “potenze del fare”. Certo, in lui rimaneva sempre viva l’esigenza della distinzione, che considerava appunto il baluardo ultimo contro ogni forma di irrazionalismo. Ma un pensiero critico e non inerte non può non chiedersi se la distinzione regge fino in fondo in un pensiero che voglia essere integralmente e compiutamente storicistico, anzi uno “storicismo assoluto” come è scritto proprio nella Storia (per esso, scrive Croce, assunto centrale è che “la realtà è storia e niente altro che storia”). A ben vedere, è una domanda che dovremo porci ancora e con attenzione.
CROCE E DELIZIE