In occasione della 28a Giornata Mondiale della Gioventù svoltasi recentemente in Brasile, papa Francesco, nel suo saluto ai volontari che hanno contribuito all’organizzazione della iniziativa, ha detto: Vi chiedo di essere rivoluzionari, di andare contro corrente; sì vi chiedo di ribellarvi a questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non siate in grado di assumervi responsabilità, che non siate capaci di amare veramente. E su questo si può essere in profondo disaccordo, amare la cultura del provvisorio, soprattutto per la memoria dei danni prodotti da chi ha creduto nella storia di saper costruire qualcosa di definitivo e da chi ha inchiodato gli uomini a ruoli stabili, fissi, indiscutibili. Si può non essere d’accordo sul fatto che assumersi responsabilità significhi ribellarsi al provvisorio, ma credere al contrario che proprio il provvisorio possa essere motivo per una assunzione di responsabilità, appunto perché non ci si sente garantiti da norme, regole, tradizioni che diano senso alla vita.
Perché poi il provvisorio dovrebbe impedire di amare veramente? Perché il papa sta parlando del matrimonio e vuole opporsi a chi dice che oggi il matrimonio è ‘fuori moda’. La cultura del provvisorio e del relativo sarebbe responsabile dell’idea che l’importante è ‘godere’ il momento, che non vale la pena di impegnarsi per tutta la vita, di fare scelte definitive, ‘per sempre’, perché non si sa cosa riserva il domani. E si può essere in profondo disaccordo anche su questo: a parte il tono antiepicureo del godere il momento che riprende un’antichissima tradizione del pensiero cristiano, ci si può chiedere quando mai il matrimonio sia stato di moda al punto di essere garanzia della capacità di amare veramente. Non credo nelle famiglie borghesi dell’Ottocento o del Novecento, dove il ruolo dell’amante sembra quasi previsto dal copione; non certo nelle famiglie contadine o operaie, dove le condizioni di vita rendevano complicata e discutibile l’idea di un ordine sociale fondato sulla monogamia. Ma nemmeno nelle poesie o nei romanzi del cristianissimo medioevo, quando Andrea Cappellano nel De amore appare assai sicuro che il vero amore, se c’è, sta fuori del matrimonio.
Il papa afferma che Dio chiama a scelte definitive, ha un progetto su ciascuno, e dunque siamo all’eterna questione del senso; non si può negare che sia una grande consolazione sentirsi oggetto di un progetto personale di Dio, che tuttavia non sarebbe concepibile in termini di provvisorietà; quel progetto chiama a scelte definitive, siano il matrimonio, il sacerdozio o la vita religiosa nei monasteri. Anche su questo pare lecito nutrire dubbi e domandarsi perché il progetto sulla nostra vita non potrebbe prevedere una qualche varietà, perché Dio dovrebbe essere così conservatore e volere solo dei professionisti del matrimonio, del lavoro, della morale e non dei simpatici dilettanti che provano – con serietà, naturalmente – un po’ di questo e un po’ di quello.
Ma l’argomento papale che non può che destare ammirazione è il fatto che questa prospettiva viene riassunta con queste parole: Io ho fiducia in voi giovani e prego per voi. Abbiate il coraggio di andare contro corrente, abbiate il coraggio di essere felici. È una mossa retorica, ma la storia si fa anche con la retorica. Avendo assunto come assiomi il progetto divino sulla vita degli individui e la stabilità come carattere essenziale del progetto, avrebbe potuto esortare ad avere il coraggio di essere ubbidienti, coerenti, fiduciosi e invece esorta a essere felici, perché evidentemente la felicità dipenderebbe dall’accettazione del progetto divino. Ma richiamarsi alla felicità è come sorridere e in fondo permette a ognuno di noi di inserire qualche tratto personale in questo obiettivo.
Non possiamo sapere se la polisemia della parola felicità potrà rendere un po’ più lieve e provvisorio il progetto o se invece la definitività del progetto riuscirà a rendere meno soggettivo il concetto di felicità. D’altra parte, come dice Borges, la storia del pensiero è talvolta la storia delle diverse tonalità che vengono assunte da certe metafore.
L'ASINO DI BURIDANO
Io credo che ci sia una confusione terminologica: che cosa intende il papa per cultura del provvisorio? Proprio il Papa dovrebbe sapere che noi siamo prestati alla vita terrena, siamo destinati a trascorrere, a perire e a morire, quindi provvisorio per statuto antropologico. Provvisorio non si contrappone ad eterno: per cultura del provvisorio si intende ciò che accade nella società liquida: relazioni che si creano, nascono e muoiono, si consumano nel diffuso sentimento di precarietà che caratterizza soprattutto il mondo dei giovani, impossibilitati a vincolare ogni cosa ad un progetto di vita stabile, o di vita tout court e anche in un nuovismo che implica il rifiuto di ogni criticità delle relazioni: se ci sono difficoltà si oltrepassano per sostituzione e non per risoluzione dei conflitti. Si buttano via le persone come se ci avessero rifilato un elettrodomestico guasto, o superato da uno più moderno, più bello, più nuovo. Nulla deve durare, tutto si deve consumare e distruggere. Ciò che è nuovo ed è giovane è un valore tout court. E’ un bene? Non credo. Io credo che però non si possa confondere il discorso sociologico sull’amore e sui sentimenti, con un discorso antropologico. Esistono i contratti, le società per azioni, le simbiosi mutualistiche con reciproco vantaggio, ma l’esperienza dell’Amore non mi sembra che sia mutata nel suo fondamento antropologico. Papa o non Papa l’Amore ha sempre a che vedere con l’Eterno, e direi, con il Destino, l’Amore ha per sua natura un senso sacramentale, indipendentemente dalle confessioni religiose e si fonda sulla Libertà, non sul possesso o sui contratti.
L’Amore è per sua essenza tragico, perché, come scrive la mistica fiorentina Cristina Campo, da esso, solo da esso, la freccia del nostro presente, vola a configgersi nel futuro (…) fissando un termine ignoto a cui non potremo in alcun modo sottrarre la nostra anima.
L’Amore ha a che vedere con la felicità e con la gioia, e solo un amore autentico puo’ avere il timbro della felicità e della gioia, è un attimo di eternità.
Può darsi che l’amore (non mi piacciono le maiuscole) possa avere i caratteri che gli attribuisci, ma il papa parlava del matrimonio e le due cose hanno rapporti molto complessi, e soprattutto storicamente determinati.
Comunque l’amore di cui parli è un concetto, una ipotesi e non qualcosa che abbia avuto cittadinanza riconosciuta in qualche momento della nostra storia.
Quanto al sentimento di precarietà che caratterizzerebbe l’odierna società liquida, credo abbia caratterizzato quasi sempre il destino dell’uomo, salvo forse qualche decennio nel periodo dello sviluppo economico del secondo dopoguerra del mondo occidentale. Forse siamo stati fortunati a vivere quei decenni, ma non era il punto di arrivo della storia.
E in ogni caso non esistono attimi di eternità; solo l’attimo può avere i caratteri dell’eternità e solo in quell’attimo l’amore può essere eterno.
Probabilmente l’unica possibilità umana di fare esperienza di qualcosa di assoluto ed eterno, o almeno di averne l’idea, l’ombra, la traccia, risiede nelle relazioni con le persone amate. Questo non rende salda la provvisorietà della nostra esistenza, non offre appigli di verità assoluta né può farlo trattandosi semmai di sentimenti personali fondati sul desiderio di eternità, di non mutevolezza di ciò che dà senso alla nostra vita. Inoltre esiste anche un senso di eternità nel ricordo, nella memoria che rievoca persone amate non più presenti, le pone nuovamente alla nostra attenzione nella loro interezza e, in qualche modo, permette di ricordare l’amore provato. Questo non ha nulla a che fare con le parole di Francesco, ma sono considerazioni che credo possano essere condivise da credenti, non credenti e uomini ancora alla ricerca.
Credo però ci sia un problema teorico insormontabile. La non mutevolezza implica la non temporalità e anche tutta la vita sta nel tempo e quindi nel provvisorio. L’unica traccia di eternità che posssiamo immaginare è l’istante indivisibile.