Il taccuino del marziano, titolo scelto per il blog che ospita questo primo post, è dedicato a quel piccolo capolavoro che è il Marziano a Roma di Ennio Flaiano. Esso è il diario di un uomo probabile, il contrario dell’uomo statistico, che trovò forma letteraria nelle parole sferzanti e dissacranti del Diario Notturno, rubrica apparsa sulle colonne del Mondo di Mario Pannunzio a partire dal 1954 (oggi pubblicato in volume da Adelphi). Vi si trovano vicende grottesche, stranianti e dissacranti. Dalle pagine di Flaiano emerge per contrasto il forte bisogno di un richiamo a un altrove che non è per nulla utopistico, quanto, piuttosto è uno zoccolo duro di realtà, secondo la definizione di Umberto Eco. La realtà chiama e ci impone di combattere una concezione degli individui, delle idee e degli eventi intesi come del tutto intercambiabili, indifferenti a quanto ci si potrebbe aspettare di diverso e di aperto all’imprevedibilità del futuro. Nelle pagine di Flaiano, il marziano Kunt sbarca a villa Borghese tra l’ammirazione generale, e viene dapprima osannato come un profetico messia per poi, in seguito, venire altrettanto rapidamente dimenticato. Le vicende di Kunt diventano una farsa messa in scena da Vittorio Gassmann al teatro Lirico di Milano nel 1960, e pubblicata da Einaudi. La farsa termina con il marziano che, disincantato, getta via il suo taccuino di appunti: cinquantotto aforismi (che si trovano anche negli scritti postumi dell’Autobiografia del blu prussia, Rizzoli, 1974, e nel Taccuino del Marziano, Henri Beyle Edizioni, 2015). Essi sono da intendersi come “istruzioni per sopravvivere nel migliore dei mondi possibili” – dove il mondo in oggetto è concepibile solo come un modello in negativo di un altro pianeta. Con lo stesso spirito, non potendo eguagliare in alcun modo il talento di Flaiano, raccogliamo oggi il testimone di quelle istruzioni, consapevoli, per usare uno degli aforismi del Taccuino, che leggere è niente, il difficile è dimenticare ciò che si è letto.
Polipi e web
Trarsi d’impiccio, condividere le regole per negoziare con gli altri, saper trovare soluzioni ai problemi, escogitare vie d’uscita e giochi d’astuzia sono procedure di un particolare tipo di intelligenza: l’intelligenza pratica. Due grecisti, Marcel Detienne e Jean Pierre Vernant, in un bellissimo libro (Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza) raccontano che l’intelligenza pratica ha origini antiche: risale infatti alla mitologia greca nella quale è una divinità, Métis. Lungi dall’essere secondaria alla sophìa, presunta depositaria della sola verità teorica, l’intelligenza pratica è anzi decisiva per trarre vantaggio dalle situazioni che la realtà ci pone di fronte evitandoci, nel contempo, i conflitti e le insidie del mondo. Le verità che Métis produce grazie al suo sapere sono, insieme, teoriche e pratiche.
Figlia di Oceano e Teti, Metis è infatti l’unica dea in grado di unire alla conoscenza delle cose la tecnica, cioè la capacità di tradurre in pratica le conoscenze teoriche. Ma non tutte le rondini fanno primavera. Prima sposa di Zeus, prevedendo forse il proprio destino, Métis cerca in ogni modo di sottrarsi all’abbraccio del Signore degli Dei ricorrendo a una serie di astute trasformazioni. A nulla serviranno i suoi travestimenti: Zeus la divorerà brutalmente, ingoiandola. Sazio di Metis, Zeus può così fare uso delle tecniche della sposa e mascherare il suo vero aspetto. Introiettando Metis e dando lui stesso alla luce sua figlia Atena, Zeus si appropria, oltre che dell’intelligenza, anche dell’astuzia. Così, l’insieme delle abilità e competenze tecniche, utili all’uomo di potere come allo stratega, all’artigiano come alla levatrice e al medico, grazie al sacrificio della dea sono riunite in unico luogo e nel solo istante di un tempo sempre presente. Un luogo inesteso, come il teatro in grado di contenere tutte le campagne di Francia cantato dal coro dell’Enrico V di Shakespeare. Un tempo sempre presente, immemore, che sembra offrire infinite libertà e immediate possibilità. Ma che blocca l’esperienza del passato, e l’apertura a ciò che gli uomini potrebbero fare diversamente per estendersi, invece, a quanto dovranno fare.
Viene in mente un trattato sull’arte della pesca, scritto nel III secolo d.C da Appiano di Apamea, in cui il mare è la metafora di una realtà piena di trappole e reti. Per sopravvivere si deve agire con astuzia, ricorrendo anche alla dissimulazione. Il più astuto di tutti è il polpo: grigio, immobile, esso si confonde con lo scoglio ed evita, così, di essere una facile preda. È poi multiforme ed enigmatico. Un essere dalle cento teste. Un labirinto vivente. L’acqua, ricca di cibo, lo attraversa da ogni parte perché non ha né un davanti né un dietro, nuota di traverso con gli occhi davanti e la bocca di dietro. Confonde l’avversario e si rende infine inafferrabile, emanando una nuvola d’inchiostro tanto labile in apparenza, quanto indelebile in realtà.
Una civiltà, ha scritto Umberto Eco, non solo si racconta solo in base a ciò che è ma anche in relazione a come si rappresenta. Il disegno e la mappa che emergono dalla rappresentazione dell’oggi registrano una trasformazione apparentemente aperta e trasparente, ma di fatto pervasiva e nebulosa. Una sigla ne è la marca essenziale: web. Dalla profondità della indelebile programmazione dei suoi rigidissimi codici, il web si estende ovunque nella realtà e inizia a divorare i pensieri già inscritti. Poi confonde quelli ancora da scrivere. Quindi impedisce di esercitare il diritto all’oblio inteso come libera negoziazione intellettuale. Infine si trasforma in una selezione di informazioni che determinano, come una sorta di onni-prescienza, i diritti, le identità digitali e le esistenze dei sommersi e dei salvati dalla memoria del ranking. Vengono in mente le parole di Amleto. Davanti alle certezze che svaniscono mentre il fantasma del padre si dilegua chiedendogli di ricordarlo, Amleto parla delle tavole della mia memoria:
O – Ricordarmi di te?! Ma certo! Dalle tavole della mia memoria cancellerò ogni ricordo vile e sciocco, le massime di tutti i libri, ogni forma, ogni impressione passata, che dai libri giovinezza e osservazione hanno copiato. E solo il tuo comando vivrà nel libro, nel volume del mio cervello, non commisto a materia più vile. Sì, lo giuro! […]. Le mie tavole! Voglio annotarlo, che un uomo può sorridere, sorridere, ed essere miserabile; almeno in Danimarca. Zio, eccoti qui. Ora la mia parola. “Addio, addio, ricordati di me” […].
Queste parole non sono da intendere in senso metaforico, allegorico o altro, ma vanno prese per quello che sono: le tables of my memories erano piccole tavolette ricoperte di uno strato di gesso, colla e vernice che permetteva di cancellare (to type away) e riscrivere le parole per fermarle prima che svaniscano e registrarle in seguito su un materiale più stabile e dal valore riconosciuto (longhand). Le parole di Amleto, dunque, ci parlano di strumenti e supporti che, nel tempo (dai rotoli ai libri, al proliferare dei media), sono stati creati ad arte per iscrivere, cancellare, registrare e orientare il senso del sapere pratico, fermare le scene della vita quotidiana prima esse che dileguino: scrivere e copiare ricette, sancire promesse, tenere conti, annotare i sermoni e i moniti profetici dei predicatori, marcare le modifiche dei drammi in scena, raccogliere le sentenze durante i verdetti, riportare le voci delle grida burocratiche…
Tuttavia, diversamente dai loro attuali e lontani parenti, come gli smartphone, i tablet e affini, la scrittura in diretta sulle tavolette seleziona solo quei dati che, in seguito, noi vogliamo che vengano registrati e archiviati in modo più stabile. Per ricordare fantasmi, per esempio, ma più concretamente, anche per disegnare, grazie all’autorevole esperienza di esperti e studiosi, i contesti geopolitici delle economie mondiali a partire da dati registrati e trasformati in valore. Basta andare sui siti di istituzioni come winnerinstitute.eu, presieduta da Franco Tatò, per rendersene conto. Lo stesso vale anche per quanto concerne quel piccolo o grande accumulo di informazioni che cancelliamo perché non abbiamo intenzione di trattenere per i più svariati motivi.
Le amletiche tavolette insomma lavorano per noi, al contrario degli attuali supporti digitali. Che lo vogliamo o no, come nota Maurizio Ferraris in Scienza Nuova (Rosenberg & Sellier), questi strumenti registrano anche i dati dei nostri passi, così come i battiti dei nostri cuori. Mentre andiamo a comprare il pane o palpitiamo per una bella novità, noi lavoriamo. Non basta nemmeno più staccare la spina del computer, come si suggeriva pochi anni fa, per scampare a questo rischio: siamo sempre al lavoro. Cioè forniamo dati a qualcuno che ne farà uso. Chi ne farà uso? E li userà bene, ad esempio per preservare la nostra salute? Oppure a proprio vantaggio? Per esempio al fine di sapere dove andiamo e associare a queste mete attività commerciali traducendo le nostre azioni in comportamenti di consumo indotti? Per quanto abilmente dissimulati sono qui in gioco dei diritti, quelli delle imprevedibili scelte che compiamo nello spazio di un libero arbitrio digitale che pare viaggiare a scartamento ridotto.
Dunque Métis ha ancora qualcosa da insegnarci: la sua storia ci dice che, per evitare sia rischi del cosiddetto “colonialismo digitale” sia quelli di celebrare, in una deterministica teologia di dati e previsioni, la prescienza (se non l’onniscienza) della divinità “web”, non serve demonizzare le tecnologie. Si tratta piuttosto di mostrare che esso altro non è che una delle trasformazioni e delle protesi della memoria e della conoscenza prodotte dall’intelligenza pratica. Forse è solo la più compiuta perché ingloba tutte le altre. Come quando Zeus divora Métis e riesce ad appropriarsi delle sue trasformazioni, così il web-polpo proteiforme cambia di continuo il suo aspetto, dissimulando all’esterno la nuvola di un sapere che in realtà contiene al suo interno tutti gli altri.
Solo se non viene svelata, questa trasformazione rischia di assumere un valore profetico e di orientare, così, il nostro consenso o controllare il dissenso su ogni cosa, impedendoci il libero esercizio di poter fare diversamente. Ma si tratta di false profezie, è bene saperlo per prenderne le misure: perché le profezie, per compiere le loro verità, non possono essere all’indicativo di un presente sempiterno, ma devono essere condizionali che, saldamente ancorati alla realtà, restano aperti a stati di cose alternativi (contro-fattuali), esperimenti mentali e ragionamenti ipotetici, mondi possibili: un what if che evita di determinare il futuro nell’eterno e immutabile presente delle registrazioni digitali, per quanto dissimulate sotto le mentite spoglie di iscrizioni morbide e immateriali.
Se questo è l’inizio ne farò un appuntamento fisso. Fedriga si dimostra sempre una certezza: mai scontato, sapiente e complesso, ma anche capace di offrire leggere vie di fuga. A presto.
Bella rubrica. C’è da aspettarsi molto (e, a questo punto, tocca gestire le aspettative).
Questa idea del web come estensione della memoria è un tema molto affascinante. Ricordo che, nella prima metà degli anni 90 dello scorso secolo, attraversare una rete molto più angusta (con browser che oggi sembrano tecnologia del pleistocene) ci dava l’illusione di trovarci in mezzo al concretarsi della metafora del Libro di sabbia di Borges.
Un paio di settimane fa parlavo, a cena, con un amico che si interessa di linguistica computazionale. Stavo dicendogli la mia frustrazione per il fatto che – dopo anni a fare il tifo per Foucault nel noto litigio televisivo con Chomsky (https://www.youtube.com/watch?v=3wfNl2L0Gf8) – avevo letto le cose di Andrea Moro e mi parevano tutte molto sensate e spaventose. Sembrava proprio che avesse ragione Chomsky a proposito della natura del linguaggio. La cosa mi causava sconforto perché Moro – mi pare – arriva a usare il linguaggio, innato nell’uomo, come prova indiretta dell’esistenza di Dio.
Il mio amico mi ha fatto notare che le analisi più avanzate della linguistica contemporanea sembrano tutte dare torto a Chomsky (e a Moro, e a Dio) e che si sta arrivando a dimostrare scientificamente che impariamo a parlare grazie a campionamenti statistici vastissimi.
Eravamo a cena e l’alcol e le risate tendono ad attenuare la mia memoria del discorso molto preciso del mio amico.
Però mi è rimasta addosso la sensazione che gli algoritmi e le le smisurate masse di informazioni che ci piace chiamare “big data” non riusciranno a colonizzare il nostro pensiero.
E poi c’è quell’altra cosa sul linguaggio. Mi piace credere che la scienza sia capace di dimostrare cose a cui mi è facile credere. Se, come dice il mio amico (e Foucault, prima di lui), il linguaggio è un sistema di convenzioni e di contesto, Occam e il suo rasoio hanno segnato un altro punto.