… supponiamo che un tale abbia la vista tanto limitata che in un pavimento a mosaico il suo sguardo possa percepire soltanto le dimensioni di un quadratino per volta. Egli rimprovererebbe all’artista l’imperizia nell’opera d’ordinamento e composizione nella convinzione che le diverse pietruzze sono state maldisposte. Invece è proprio lui che non può cogliere e rappresentarsi in una visione d’insieme i pezzettini armonizzati in una riproduzione d’unitaria bellezza … (Agostino, De ordine 1.1.2.)
Se immagino che il mosaico rappresenti lo spazio entro il quale mi muovo, la tessera che sto guardando da vicino potrebbe essere semplicemente lo spazio che occupo con il mio corpo. Se mi allontano continuando a fissare quella tessera, continuando cioè a essere io, si allarga lo spazio in cui mi sento collocato: la casa, la strada, il rione, la città, la nazione, il continente, il mondo, l’universo. In ognuno di questi spazi muta il significato che posso attribuire alla mia presenza e mutano le leggi che regolano i miei movimenti: i dieci metri che percorro nella mia camera hanno un senso se misurati nello spazio della casa, hanno sempre meno senso se misurati con riferimento a spazi sempre più ampi, fino a perderlo del tutto in relazione al mondo o all’universo.
Lo stesso accade se immagino che il mosaico rappresenti il tempo. La tessera che fisso è l’istante presente e, se mi allontano, si allarga la porzione di passato, e forse anche di futuro, che prendo in considerazione. Quanto accade in quella tessera cambia il proprio senso se collocato nell’arco di una giornata, di un anno, di dieci, di una vita, di un secolo, di un millennio o di tutta la storia che mi ha preceduto e che mi seguirà. Dolori, gioie, soddisfazioni, delusioni, salute e malattia mutano il loro valore se misurate sull’arco di un anno o di un decennio e lo perdono del tutto se pensate nella storia di un secolo o di un millennio.
Mi veniva da pensarci mercoledì di fronte al fatto, probabilmente del tutto banale se considerato in un arco di tempo non molto superiore ai vent’anni, dell’ex presidente del consiglio italiano che, con un evidente sforzo, prima dichiara di votare la fiducia al governo e poi si accascia sullo scranno senatoriale. C’è qualcosa di tragico in quella maschera di fatica e di sconfitta, ma non riesco ad accostare la tessera di quell’istante a quelle, che posso vedere solo da lontano, del cavallo di Caligola eletto senatore, della caduta dell’impero romano, del giorno delle dimissioni di Nixon travolto dallo scandalo Watergate o del discorso di Eltsin contro Gorbaciov nella morente Unione Sovietica.
Poi ho guardato i vincitori, guidati da Alfano, Letta, Renzi, Giovanardi, Formigoni e Franceschini e allora mi sono allontanato un pochino dal mosaico, quel tanto che basta per intravedere il famoso titolo di giornale con cui Luigi Pintor ci fece sognare il 28 giugno 1983: Non moriremo democristiani. Ho capito che forse si era sbagliato e mi sono consolato pensando che, se mi allontano ancora un po’ dal mosaico, sparisco io, sparisce Pintor, ma spariscono anche loro, finalmente. Occorre accontentarsi.
… non dobbiamo accontentarci, perché l’ottica della distanza deve aiutarci ad avere la visione dell’insieme proprio per trasformare e mutare questo insieme, non per distanziarcene, altrimenti moriremo veramente democristiani … non credi?
Brano molto bello, bravo. Pintor si era proprio sbagliato ma speriamo nell’ottica della lontananza.