“Tra le poche certezze che mi rimangono nella vita c’è quella che niente più segue uno schema, perciò sono scettico… E così mi sembra che lei si allontani da me una seconda volta: prima la perdo nel presente, e poi la perdo anche nel passato. La memoria, l’archivio fotografico della mente, sta venendo meno”. È una struggente pagina autobiografica di Julian Barnes in Livelli di vita, tradotto da Susanna Basso per i tipi di Einaudi (pp. 118, euro 16,50). Lo scrittore inglese, 67 anni, è dal 2008 vedovo dell’agente letteraria Pat Kavanagh dopo un trentennio di amore coniugale (a dispetto dell’apparente ossimoro). In Italia il romanzo è uscito ai primi di ottobre in coincidenza con il Premio Malaparte di Capri assegnato a Barnes dalla giuria presieduta da Raffaele La Capria. E nei giorni scorsi si è aggiudicato il titolo di libro principe nella classifica di fine anno del quotidiano “la Repubblica”. Un giudizio condivisibile, perché certamente Livelli di vita è fra i romanzi migliori del 2013: un esperimento originale nell’ambito della dilagante autofiction che sublima in finzione vicende personali dell’autore (forma di “nevrosi” e terapia letteraria al tempo stesso)
Già in Il senso di una fine (Man Booker Prize 2011, Einaudi 2012) Barnes purificava il lutto nella descrizione dell’insensatezza che domina o avvolge gli esseri umani. Giacché spesso non ci accorgiamo che il momento più autentico di una vicenda coincide con l’inconsapevolezza di quanto sta accadendo. Il “bovarismo” dell’autore – Il pappagallo di Flaubert era uno dei suoi primi lavori, prossimo alla riedizione italiana – è però istoriato di considerazioni saggistiche e reso terso da una lingua precisissima con un uso delle parole degno del lessicografo. Stavolta fa di più: egli affonda il coltello nel dolore e non nasconde di aver pensato di usare la lama, in una vasca da bagno con un bicchiere di vino rosso sul bordo, pur di non dover proseguire nel corpo a corpo con un’assenza lancinante. Il Nostro continua a parlare con Pat: un dialogo serrato come quelli dei bambini con l’amico immaginario, al pari di Pereira nel romanzo di Tabucchi citato in queste pagine.
Incontrandolo de visu, è evidente quanto gli manchi la moglie nella vita quotidiana. Si illumina, per esempio, ricordando i viaggi fatti insieme in varie “piccole città italiane” in Umbria, in Puglia, al Nord. Vacanze non di rado a piedi. Un’abitudine che gli è rimasta visto che a Capri, incurante della minaccia dei nubifragi, si è incamminato di buona lena sul monte Solaro ”acchiappa nuvole”. D’altro canto, non è il tipo che si accuccia in un angolo con il piglio respingente. In piazzetta, alla fine di un discorso su letteratura e idee (“Non si può scrivere Guerra e pace e poi farne una teoria”), una signora lo interroga sul… “pappagallo di Balzac”: lui non se la prende affatto, ride di gusto, si accende una sigaretta e fa intendere che quasi quasi cambierebbe il titolo del suo libro.
In Livelli di vita Barnes aveva bisogno di porre una distanza “letteraria”, di assumere una prospettiva romanzesca e storica prima di compiere la sua discesa agli inferi, a mo’ di Orfeo contemporaneo che voglia riprendere per mano Euridice e tentare di condurla alla luce. Un’impresa disperata fin dai tempi del mito, perché Orfeo guidandola fuori dall’Ade si volta a guardare l’amata e la perde nuovamente. “Perdere un mondo per uno sguardo? Certo che sì. Il mondo esiste per questo, per essere perduto, date le debite circostanze”. Livelli di vita è dunque dedicato a un trittico di personaggi ottocenteschi, pionieri del volo e specialisti della sfida celeste, ciascuno a suo modo in cerca della “prospettiva di Dio”. Da agnostico qual è, Barnes allude allo sguardo aereo e all’ambizione tipica della modernità di fotografare il mondo per coglierne l’essenza ed imprimergli una accelerazione.
I tre sono il colonnello di cavalleria e viaggiatore britannico Fred Burnaby, il fotografo francese Nadar e l’attrice parigina Sarah Bernhardt. A quest’ultima lo scrittore attribuisce una relazione amorosa immaginaria con Burnaby. Tutti e tre sorvolarono il proprio tempo a bordo delle mongolfiere che i due uomini oltretutto si impegnarono a progettare con esiti il più delle volte disastrosi. Il loro impegno fu in fondo teso a “rendere il soggettivo all’improvviso oggettivo”, ovvero a propiziare quel “sorgere della Terra” osservato un secolo dopo dagli astronauti in viaggio verso la Luna. Per raggiungere gli dei, o almeno sfiorarli, c’è chi si affida al volo, all’arte o alla religione. I più, “nove su dieci”, ci provano con l’amore. “Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi… Ogni storia d’amore è potenzialmente anche storia di sofferenza. Se non subito, in un secondo tempo. Se non per l’uno, per l’altro. Per tutti e due, qualche volta. Ma allora perché non facciamo che ambire all’amore? Perché l’amore è il punto di incontro tra verità e prodigio. Verità, come nella fotografia. Prodigio, come nel volo aerostatico”.
Tuttavia, conclude Barnes, il vero dramma è un altro: l’universo semplicemente “fa il suo mestiere”, la morte ghermisce quando vuole, senza motivo né possibilità di spiegazione e consolazione. Un nichilismo mite, il suo, che non illude eppure paradossalmente conforta. Purezza e necessità della letteratura.
Articolo apparso su minima&moralia – un blog culturale di minimum fax il 17 ottobre 2013 (e qui aggiornato)