Perché, Moro prigioniero, la stampa italiana diede ascolto a quella parte dell’Italia che chiedeva di staccare la spina alle Br ignorandone i comunicati mentre oggi la stessa stampa si profonde in particolari (pubblicando ogni parola e ogni proclama del terrorismo) quanto ai fatti di Parigi? Perché non viene preso in considerazione il timore (alla base di quella remota decisione, che pur riguardava un terrorismo forse più minaccioso e cruento di quello attuale) che altri terroristi sciolti e indipendenti, vedendo quale effetto planetario sortisce un’azione come quella dei tre integralisti francesi, possano ripetere le stesse gesta e farsi emuli di “eroi” il cui risultato appare di gran lunga superiore a un sacrificio da kamikaze imbottito per strada di esplosivo?
Nel 1978 la stampa italiana, come anche quella europea, era giustamente consapevole del fatto che il terrorismo, qualsiasi terrorismo, persegue il primario obiettivo, al contrario delle mafie, di dare il massimo risalto alle proprie iniziative. Non fare da megafono alle Brigate rosse, ancorché fornissero informazioni su Moro, fu vista come una scelta valsa a rifiutare ogni tipo di negoziato, a costo della vita dello statista. Vi furono molte polemiche e molte contrarietà in nome della prevalenza della vita umana su ogni altra ragione, fosse pure di Stato, e sembrò che la coscienza del Paese si dilaniasse di fronte un bivio ogni strada del quale poteva essere comunque sbagliata. Ma la linea della fermezza non solo prevalse ma segnò un indirizzo, unico al mondo. Di quel grande dibattito non è però rimasto niente oggi né la strada dell’intransigenza scelta allora ha portato a uno sbocco o a una meta. Con una facilità e una superficialità che lasciano sgomenti, il problema non solo non si è posto ma è stato del tutto rimosso. Anzi, con l’avvento dei nuovi mezzi tecnologici e i social forum, il risalto che il terrorismo ha avuto è stato mille volte maggiore.
Dimentichi dell’esperienza fatta con il terrorismo italiano, i giornali e le televisioni nazionali, nonché siti, radio e quant’altro faccia comunicazione, continuano a dare al terrorismo uno spazio che non può non tradursi, a ben vedere, in un vantaggio reso al terrorismo e in un incoraggiamento ad altri sbandati come i fratelli Kouachi e il loro amico Coulibay a seguirne l’esempio, magari facendo tesoro degli errori e affinando la tecnica militare d’intervento. Chi verrà dopo si preoccuperà infatti di crearsi un piano di fuga, appoggi logistici, nascondigli sicuri. E se vorrà invece immolarsi nel martirio baderà a non agire lasciando che dai tetti siano ripresi mentre operano con gli smartphone e i tablet. La scena del poliziotto ucciso sul marciapiede è la sola di cui il mondo disponga per inorridire. Senza di essa, sarebbe stata lasciata alla sola immaginazione, com’è stato per la strage dentro il giornale, la forza di esecrazione dell’opinione pubblica anche di parte musulmana: uno sforzo comunque che sarebbe stato insufficiente per determinare un’ondata di sdegno e di condanna anche nel mondo islamico moderato, ondata che è mancata proprio in assenza di documenti visivi sulle efferatezze perpetrate dentro il Charlie. Se russi e americani non avessero filmato i sopravvissuti nei lager nazisti e le ecatombi di cadaveri ammassati dai forni crematoi, la nostra memoria sugli orrori dell’olocausto non sarebbe stata ben diversa?
La stampa, si dice giustamente, ha il dovere di documentare i fatti quanto più riesca a farlo, fino ad apparire addirittura cinica. Ma perché questa dottrina non è valsa per salvare trentasette anni fa Moro? La nostra coscienza civile si è forse imbarbarita? Reputiamo giusto quanto ieri giudicavamo sbagliato? Se la stampa europea, diciamo meglio occidentale, avesse dedicato ai fatti di Parigi lo spazio generalmente impegnato quanto ad altri eventi simili, non si sarebbe certamente inottemperato all’obbligo di informazione ma non si sarebbero poste le basi perché altri Coulibaly (e sono centinaia e centinaia) in questo momento non riflettano sull’opportunità di colpire una capitale occidentale anziché in una città del Medioriente, studiando attentamente le decine di pagine che tutti i giornali stanno profondendo senza pensare di intelligere col nemico, trovando in esse informazioni preziose se non addirittura istruzioni sulle tattiche da adottare, come per esempio quella di scegliere bersagli sensibili quali sono i giornalisti.
A leggere infatti i giornali, dodici noti vignettisti valgono le tremila vittime anonime dell’11 Settembre se il 7 gennaio parigino è stato unanimemente accostato alle stragi alle Torri Gemelle. I prossimi terroristi terranno perciò conto di questa nuova acquisizione e sanno già che il numero delle pagine dei giornali europei aumenta in base alla qualità degli obiettivi da colpire. Non lo sapevamo prima di Parigi. Sapevamo, per una innata legge che regola la stampa, che centomila morti nelle Filippine per uno tsunami valgono in spazio da occupare dieci morti in Italia per una tromba d’aria o cento morti in Francia per un uragano. Sapevamo cioè che l’interesse dell’opinione pubblica cresce in base alla distanza e all’identificazione culturale. Così, le migliaia di morti che si sono avuti per mano dell’Isis, come le centinaia di cristiani trucidati da squadre islamiche organizzate nelle chiese d’Oriente e d’Africa, non possono avere lo stesso spazio di dodici vignettisti parigini uccisi da due invasati di fondamentalismo che non sono riusciti a diventare rappers.
Occorre dunque interrogarsi, quantomeno in Italia dove siamo stati i soli a porre una questione capitale come quella se staccare o no la spina al terrorismo, sulle storture della “società dello spettacolo” inverata da una stampa che si è americanizzata. E che si sta inconsciamente facendo carico di vite umane perseverando nella logica dell’enfatizzazione del terrorismo e tradendo lo spirito del 1978.